Fecondazione in vitro: difficile scelta tra etica e famiglia

Società ed ambiente sono alla base di un calo drastico di “fiocchi” fissati ai portoni delle abitazioni di tutto il mondo industrializzato. Il rapporto annuale del dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite parla di “ritmo di invecchiamento senza eguali nella storia”. Nei Paesi più sviluppati il livello di ultrasessantenni è notevolmente superiore rispetto al numero di minori. L’invecchiamento riguarda quasi tutti i Paesi del mondo ed è caratterizzato da una riduzione della fertilità, oramai fenomeno globale.

In una situazione del genere, “La riproduzione naturale attraverso l’atto sessuale è, nella migliore delle ipotesi, un processo abbastanza inefficace”, ha spiegato il Dr. John Yovich, nella sua ricerche sulle percentuali di successo della fecondazione assistita. Lo studio, pubblicato sulla rivista Reproductive BioMedicine, riporta dati preoccupanti: negli over 35 la percentuale di concepimento è di uno su dieci. Ecco perché, secondo lo scienziato, nell’immediato futuro “le coppie attorno ai 40 anni penseranno per prima cosa all’inseminazione in vitro quando decideranno di avere figli”.

La sopravvivenza della specie sembra essere nelle mani della fecondazione in vitro, tecnica messa a punto dal Prof. Robert Edwards, premio nobel 2010 per la medicina.

Ex soldato di Sua Maestà, fisiologo e ricercatore, studiò biologia all’Università del Galles. Divenne ricercatore presso il National Institute for Medical Reseach di Londra nel 1958 e qui iniziò le sue ricerche sulla riproduzione. La sua idea era di fertilizzare le uova al di fuori del corpo della donna per poi reinserirle nell’utero.

Fu così che nel 1966, insieme al ginecologo Patrick Steptoe, condusse il primo trasferimento di un embrione fertilizzato nell’utero di una donna. Al 1978 risalgono i primi impianti in utero di ovuli fecondati in provetta, che dopo nove mesi, il 25 luglio, diedero alla luce Luise Brown, oggi 32enne. La tecnica alla base di questo successo scientifico è denominata FIVET (fertilizzazione in vitro con embryo transfer). Il principio è relativamente semplice: si tratta di fecondare in vitro un ovulo estratto dalle tube della paziente con uno spermatozoo sano, per poi reimpiantare l’embrione così ottenuto nell’utero della donna entro 72 ore. I tre quarti di queste gravidanze arrivano al parto.

Le probabilità di successo di questa tecnica sono direttamente legate all’età della donna, oltre all’influenza negativa di fattori come alcol o fumo.

Grazie all’impegno di Edwards e Stepstone ad oggi, 4 milioni di bambini sono nati da coppie con problemi di fertilità. Sulla base di un dato di così elevata importanza, Il Karolinska Institutet, che da Stoccolma ha scelto l’embriologo inglese come vincitore di uno dei premi più ambiti al mondo, il Nobel. A Edwards andrà il premio di 10 milioni di corone svedesi, pari a 1,5 milioni di dollari e l’onore di una cerimonia con cena di gala nel palazzo comunale di Stoccolma.

«Il successo di questa ricerca – ha proseguito la moglie di Edwards – ha toccato le vite di milioni di persone in tutto il mondo. La dedizione e la determinazione di Robert hanno portato all’applicazione dei suoi studi rivoluzionari, nonostante la contrarietà piovuta da più parti».

Le ricerche sulla fecondazione in vitro scatenarono da subito forti polemiche fra le chiese cristiane e i medici convinti che la fecondazione artificiale non avrebbe mai funzionato. Il Vaticano in particolare ha manifestato tutto il suo disappunto per la scelta di Stoccolma. Lucio Romano, presidente dell’Associazione Scienza e Vita ha sottolineato “l’inaccettabilità delle tecniche di fecondazione in vitro, che comportano la selezione e soppressione di esseri umani allo stato biologico di embrioni”. Più diretto Il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mons. Ignacio Carrasco de Paula, ha affermato “Innanzitutto, senza Edwards non ci sarebbe il mercato degli ovociti con il relativo commercio di milioni di ovociti; secondo, senza Edwards non ci sarebbe in tutto il mondo un gran numero di congelatori pieni di embrioni che, nel migliore dei casi, sono in attesa di essere trasferiti negli uteri, ma che, più probabilmente, finiranno per essere abbandonati o per morire. Questo è un problema la cui responsabilità è del neo premio Nobel”.

Di chiunque sia la responsabilità etica della scoperta, se di chi l’ha generata o di chi la utilizza in modo improprio, Il problema reale resta quello di disciplinare una tecnica che potrebbe sottostimare il valore dell’embrione. Nel 2004 in Italia è stata introdotta la legge 40 che, sulla base di considerazioni mediche ed etiche, ha limitato diversi aspetti della FIVET.

In particolare: tutti gli embrioni prodotti devono essere impiantati in utero; è vietata la crioconservazione (tranne in casi non prevedibili al momento della fecondazione), la soppressione di embrioni, la diagnosi pre-impianto dell’embrione e la fecondazione eterologa. In tal modo aumenta il rischio di gravidanza multipla, considerata sempre patologica, rischiosa per la donna e per i nascituri.

Come l’Italia, ogni Paese ha escogitato una soluzione per superare il gap etico e religioso che la fecondazione in vitro ha portato con sé dagli anni settanta.

In fin dei conti, se è vero che, come afferma Lucio Romano, «Il progresso delle biotecnologie non significa sempre progresso etico», bisogna altresì ammettere che dalla nascita di Louise Brown le tecniche per la fecondazione artificiale sono divenute, non solo il mezzo per superare i problemi di infertilità all’interno di una coppia, ma anche un modo per evitare la trasmissione di malattie genetiche da genitore a figlio.

Catello Somma

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