Da parte di giornali e critici il film sul Risorgimento, “Noi credevamo”, di Mario Martone non ha avuto giusta e dovuta attenzione alla sessantasettesima mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Alla vigilia del centocinquantesimo dall’Unità d’Italia l’opera prodotta dalla Palomar, Les Films D’Ici e dalla Rai, sembra che non sia stata capita in maniera adeguata, dato che racconta la retrospettiva di un periodo storico, quale quello della seconda metà del Diciannovesimo secolo, che ancora oggi è studiato sui libri di scuola con ingenua retorica nazionalistica. Di fatto, come asserito dallo stesso regista, Martone: “si è cercato di mostrare quegli avvenimenti della storia che sono poco conosciuti, e sono stati in larga parte sostituiti da grossolani falsi storici.”
L’opera in questione potrebbe però avere un doppio valore, non solo legato alla storia degli uomini ma anche a quella del cinema stesso. Infatti, pochissimi oggi sanno che i primi film di finzione riguardavano l’argomento risorgimentale. Si ricorda in questo senso il primo film di finzione italiano, realizzato da Filoteo Alberini nel 1905, “La presa di Roma”. Un‘opera capolavoro del genere in costume voluta in un ambiente prettamente massonico, che enfatizza l’aspetto retorico-nazionalistico ed è avverso a quello clericale. Quindi si passa, negli anni successivi, a lavori più accurati come “il piccolo Garibaldino” e “Anita Garibaldi” che ancora una volta si mostrano continuativi riguardo al canonico valore retorico e propagandistico promosso già nella letteratura e nell’arte figurativa del secondo Ottocento.
Con alcuni capolavori degli anni venti del grande regista Carmine Gallone, come “La cavalcata Ardente” e “Giuseppe Verdi”, il fatto storico passa in secondo piano per diventare sfondo di storie d’amore e drammatiche; ma la prima reale svolta avviene con “1860” di Blasetti, un film coraggioso e innovativo, perché nonostante fosse realizzato in epoca fascista, vede attori dilettanti recitare nel loro dialetto e dimostrando le diversità del coinvolgimento popolare per il processo di unificazione italiano. “1860” resta una delle opere più importanti di questo genere, nonostante la molto discussa scena finale aggiunta, che è nettamente indipendente dal resto dell’opera, in cui si mostrano le camicie nere sfilare di fronte alle ormai anziane camicie rosse. Una scene quindi mirata a mostrare continuità tre vecchi patrioti e nuovi patrioti e che oggi è l’unico neo di un capolavoro ammirevole.
Ma “Noi credevamo”, la storia di tre ragazzi del Sud Italia, che in séguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie e diventano affiliati della Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, è figlio di una nuova generazione di opere risorgimentali; è un lavoro legato alla celeberrima trilogia “della retrospettiva storica”. Luchino Visconti apre le danze con due indimenticabili film: “Senso” del 1954 e “Il gattopardo” del 1963, adattamento del celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa realizzato dalla più grande sceneggiatrice italiana di tutti i tempi Suso Cecchi d’Amico (scomparsa lo scorso 31 luglio); poi è venuto il turno, a chiusura del trittico, di Florestano Vancini che, nel 1970, poté realizzare grazie alla produzione Rai un’opera che già dal titolo mostrava un programma autonomo rispetto alla storia ufficiale e che è stato un valido sprono per gli studiosi a rinnovare con più scrupolo i fatti accaduti durante il lungo processo di unificazione del nostro paese. Il titolo è infatti: “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”. E ancora presto per stabilire la validità del lavoro di Mancini e coapire se sarà un nuovo “Bronte”, ai posteri l’ardua sentenza dato che dovremmo aspettare la proiezione nelle sale, ma è ineccepibile che offrirgli una possibilità significa investire nel buon cinema intelligente italiano.
Gioacchino Iuzzino