“Un piede a terra, l’altro al cielo”, crediamo che non ci sia miglior espressione per indicare l’essenza della vera cavalleria. La medesima idea, rappresentata col linguaggio delle immagini, è presente nella bandiera dell’ordine Templare.
La croce rossa posta al centro tra due bande orizzontali di colore opposto, nera quella inferiore e bianca quella superiore, rimanda alla figura dell’uomo che sa stare in equilibrio tra l’alto ed il basso, tra il vertice e la base, tra lo spirito e la materia.
I piedi della croce, infatti, sono ben piantati nel nero della terra mentre la sua parte superiore si staglia nel bianco del cielo.
Nella civiltà medioevale la cavalleria, ed in particolare quella del Tempio, racchiudeva in se un carattere tanto terreno quanto celeste, una sintesi perfetta di concretezza e vita ascetica. Questi due aspetti non erano per nulla in contrasto tra loro ma, al contrario, si integravano vicendevolmente secondo il principio che il più alto ordina e regge il più basso.
“Ciò che viene dalla carne è carne, ma ciò che nasce dallo spirito è spirito” è scritto nel Vangelo.
La materia, da sola, resta fine a se stessa se non c’è
Un principio superiore che la guida nella sua manifestazione. L’uomo d’oggi non sa cosa sia concretamente questo equilibrio tra spirito e materia. Egli crede di conoscerlo ma in realtà ne ha solo un concetto astratto. A seconda dei momenti e delle circostanze della propria vita, infatti, egli finisce con l’assolutizzare ora la materia ora lo spirito. Inconsciamente persuaso che la realtà coincida con la fredda concretezza dei sensi fisici, l’uomo si ritrova a pensare lo spirito o troppo materialmente, e con ciò ne nega l’assoluta libertà, o troppo astrattamente facendone, al contrario, una realtà lontana e fumosa a cui si può tendere solo con uno slancio sentimentale.
Allora, che cosa significa veramente l’espressione “un piede a terra, l’altro al cielo”? Possiamo trovare la risposta a questa domanda nelle parole del Cristo: “Siate nel mondo ma non del mondo”. Il Salvatore intendeva dire, con queste parole, che dobbiamo imparare a vivere senza fare del vivere il nostro dio. La saggezza non sta nello sfuggire la natura fisica chiudendosi in una sorta di ritiro mistico, ma nell’usare le cose del mondo senza lasciare che queste ci condizionino oltre misura.
Si tratta, in sostanza, di imparare a vivere veramente smettendo di essere vissuti.
Siamo vissuti quando gli istinti, le passioni, i retaggi sociali tiranneggiano in noi al punto di divenire i nostri veri padroni. Viviamo veramente, invece, quando diveniamo capaci di andare attivamente incontro ai contenuti della nostra interiorità rispettando la libera autonomia dello spirito. È questo, infatti, che deve comandare, decidere e scegliere cosa fare e cosa no.
Noi non possiamo tradire la scintilla divina che ci anima, e che ci fa essere realmente figli di Dio, e che per definizione è assolutamente incondizionata.
“Il vento soffia dove vuole, senti il suo sibilo ma non sai donde viene né dove va. Così è chiunque è nato dallo Spirito” dice il Cristo a Nicodemo.
Una cosa va precisata a questo punto del discorso, ed è che la superiorità dello spirito, come sottolinea anche l’attuale Pontefice nell’enciclica DEUS CARITAS EST, non significa la negazione della carne.
La carne deve essere guidata dallo Spirito, santificata dall’azione di questo affinché il corpo diventi il “Tempio dello Spirito Santo”.
E’ questo l’equilibrio tra l’alto ed il basso di cui si parlava sopra.
Sinteticamente, punto di riferimento nella vita quotidiana deve essere la consapevolezza che il male non sta nelle cose ma nel modo in cui noi le usiamo poiché “non è impuro ciò che entra dalla bocca, ma ciò che esce dal cuore”. Il male, dunque, non è nel mondo ma nel cuore dell’uomo che non si converte alla guida ed all’insegnamento dello Spirito.
La Fede non può essere […]
a cura di Giacomo Giarraffa e Daniele Laganà