E’ uno strano momento, quello della storia dentro cui, oggi, viviamo tutti.
Dovremmo, in queste ore, avere almeno la certezza (e la fierezza) di essere una sola grande nazione. Tra una settimana ricorre l’anniversario dei 150 anni dell’unità nazionale: tanta retorica, tanti manifesti in quasi tutti i comuni, tanti soldi che si stanno spendendo in iniziative “tanto per…”, una festa regalata a studenti e lavoratori.
Il clima non mi piace, non sta entusiasmando nessuno. Il clima è gelido come non mai. La Lega, questa volta, qui al sud, proprio non c’entra.
Si ha l’impressione di una palpabile indifferenza diffusa, epidemica ed anche condivisa, da sinistra a destra. La festa si farà, quasi “per forza”. Nessun sussulto collettivo, nessuna emozione trainante, nessun tema aggregante. Non ho ancora incontrato qualcuno che mi parlasse della festa per l’unità. Si ma per ricordare semplicemente che eravamo divisi e siamo diventati una sola grande terra o quanto, piuttosto che uomini uniti rappresentano culture che si fondono e si esaltano mutuamente nella solidarietà e nella difesa dell’identità e del patrimonio culturale comune ed è quindi questa la direzione che la politica, sia che governi o che si opponga, deve perseguire?
Domande a cui nessuno sembra voler dare risposte convincenti. Non le dà la politica, diretta interessata (quella sopravvissuta allo tsunami che ha devastato l’etica pubblica) e nemmeno la chiesa militante (il popolo dei fedeli), che appare sempre più chiusa nelle parrocchie e poco impegnata sui territori, spesso desolati, delle nostre città. Nonostante gli inviti, le sollecitazioni e gli indirizzi, prima del Papa ed anche della Conferenza episcopale italiana che, su temi scottanti e di attualità, come l’impegno e la testimonianza nella lotta contro le mafie, non ha esitato a chiamare alla mobilitazione e all’impegno, da cristiani nella storia, tutti i parroci e le parrocchie, soprattutto del Sud.
Anche la “rete”, qui da noi, sembra indifferente alla necessità di fare la sua parte nella disputa per la civiltà e per la ricerca di argomenti e passioni forti che rinsaldano l’unità del popolo nella nazione. Contrariamente a quanto è avvenuto, e sta ancora avvenendo, nei paesi africani che stanno cacciando i propri dittatori e lottano per la libertà. Troppe banalità nel grande territorio digitale della socialità che deprimono interessi autenticamente civili.
Una prova della contingente “confusione epocale” della nostra generazione è anche in un libro, che non tratta quello che dice nel titolo (“Indignatevi” di Stéphan Hessel) e pure in Francia è un bestseller. Il libro invita a cercare motivi per indignarsi e non, come dovrebbe essere naturale, a valutare che esistono cose di cui indignarsi. Nelle nostre realtà, ad esempio, qualche tema è la monnezza costantemente nelle strade e i rifiuti dimorati nel parco naturale del Vesuvio, o i reperti di Pompei che ancora crollano inesorabilmente tra l’indifferenza della maggioranza degli italiani. Altro che indignazione. Il mondo civile non si spiega come non abbiamo ancora alzato le barricate per salvare la nostra unica (ed irripetibile) risorsa d’Italia. L’indignazione, nel libro, sembra un fine, e non l’energia e la determinazione per compiere azioni che riducano i mali comuni per la difesa del primato del Bene Comune.
Viene da chiedersi: quando la nebbia dell’indifferenza e del relativismo, figlia di una politica che non propone più progetti e prospettive per il futuro, perché ha messo da parte l’etica pubblica e la valorizzazione della dignità umana, ci opprime e ci rende invisibili, possiamo ritenerci soddisfatti o rassegnati?
Antonio Irlando