Nuovo colpo al clan Di Martino-Afeltra, cosca camorristica che opera a Gragnano e nei comuni dei monti Lattari. Ieri mattina, è stato sequestrato e chiuso il ristorante “Nonno Nino” di proprietà di Fabio Di Martino, 23 anni, detto “nas e can”, attualmente detenuto, figlio del boss Leonardo “o’lione”. Ad eseguire il sequestro, i carabinieri della stazione di Gragnano, agli ordini del maresciallo Sossio Giordano, in collaborazione con i colleghi della compagnia di Castellammare di Stabia, diretti dal capitano Gennaro Cassese e dal tenente Fabio Ibba, coadiuvati dai militari del Nas e dal gruppo Tutela del Lavoro. Durante l’ennesimo controllo mirato, i carabinieri hanno scoperto che esisteva una sala completamente abusiva; inoltre, sono stati sorpresi 3 lavoratori irregolari. La struttura è stata sottoposta a sequestro. Dopo l’apposizione dei sigilli, è stata immediatamente abbattuta l’insegna, anch’essa illegale, mentre il proprietario è stato denunciato a piede libero per abusivismo edilizio, mentre per lo sfruttamento del lavoro nero sono state elevate sanzioni per 35mila euro. Lo scorso 18 febbraio, il locale era già stato “visitato” dai militari dell’arma, che avevano riscontrato numerose irregolarità. Addirittura, erano stati riscontrati allacci abusivi per fornire elettricità e acqua. In quella occasione, una persona fu arrestata per furto di energia elettrica: si tratta di una 22enne, attuale gestrice del ristorante, fidanzata del figlio del boss Vincenzo Di Martino, 29enne già detenuto. Durante quell’operazione, furono eseguiti controlli anche ad un bar che si trova a poche decine di metri di distanza dal ristorante, sempre nella frazione Iuvani di Gragnano e nella disponibilità del clan Di Martino-Afeltra, poiché di proprietà di uno dei figli del boss Leonardo Di Martino, Michele, 20enne latitante ormai da mesi. Lo scorso 15 ottobre, nell’ambito dell’inchiesta “Goal” che aveva portano ad oltre 20 arresti, erano stati controllati entrambi i locali, poiché considerati di proprietà del clan Di Martino-Afeltra, o in qualche modo riconducibili a persone vicine. Ciò dimostra, secondo gli inquirenti, come i proventi delle attività illecite della cosca siano stati reinvestiti per “pulirli”.