L’eco dei festeggiamenti si è spento da qualche giorno, affievolitosi ancora più repentinamente a causa della grave situazione nordafricana.
L’Italia, dunque, ha compiuto 150 anni. Grazie ai Mille, grazie a Cavour e ai tanti patrioti che avevano per anni teorizzato l’unione di tutta la penisola sotto un solo vessillo. E così avvenne nel 1861 a conclusione dell’epopea di Giuseppe Garibaldi e del suo manipolo di audaci che ci è stata tramandata in forma epica ed eroica.
Peccato che la storia la scrivano i vincitori; peccato che per cominciare a prendere coscienza di quanto accadde ci sono voluti troppi anni. E comunque viva l’Italia.
Un sentimento contrastante mi attraversa la mente. Mentre non posso fare a meno di sentirmi italiano e profondamente legato a quei simboli come il tricolore e l’inno di Mameli che ormai fanno parte del DNA di quanti si sentono veramente Italiani, non posso fare a meno di riconoscermi erede di quella cultura, di quella società e di quelle tradizioni che erano proprie del Regno delle Due Sicilie che prosperava al centro del mediterraneo e fu conquistato, chissà come e perchè, senza troppa fatica. Un regno sostanzialmente pacifico quello dei Borbone, un regno con un esercito ed una flotta sicuramente capace, volendolo, di annientare i Mille del Piemonte e del Lombardo, i due vapori che trasportarono le Camicie Rosse. Eppure un regno perso.
Purtroppo, come dicevo, la storia la scrivono i vincitori, è sempre stato così ed ancora è così ai giorni nostri. In base a questo tragico assunto i duesiciliani passarono, in breve, da sudditi a briganti. Così furono definiti. Briganti divennero tutti coloro che si opposero all’invasione e alla spoliazione del proprio paese da parte di un esercito straniero. La storia la scrivono i vincitori e ben poco ci è voluto per trasformare i partigiani delle Due Sicilie in Briganti. Uomini che lottavano per la propria libertà contro una libertà “esportata” pretestuosamente dai Savoia e da Cavour che, fattosi due conti, decise che l’operazione “commerciale” di annettere il Regno Napoletano a quello sabaudo sarebbe stata di gran lunga fruttuosa. Per le malandate casse piemontesi che nel 1860 potevano contare su appena 20 milioni di lire in cartamoneta i 400 i milioni di lire, che erano depositati nelle casse del Banco di Napoli ed appartenevano alla corona, erano un toccasana. Ben 400 milioni in oro.
La cassa fu rapinata e portata al nord e servì a sanare i debiti che i piemontesi avevano contratto negli anni per campagne belliche disastrose e al felice regno del Sole, del mare e del mandolino, rimase il sole, troppo spesso, per i “briganti”, a quadri da una cella dimenticata da Dio, il mare controllato dalle potenti flotte europee e il mandolino per cantare:
O Italiella,o Italià./ T’he fatto la vunnella talià,/ te l’è fatta de tre culure,/ e nuje simmo rimaste annure/
comme ce ha fatto mamma,/ scauze annure e muorte ‘e famma.
Gennaro Cirillo