Aggressive, sfrontate, disposte a tutto: a Torre del Greco erano le donne a gestire le attività di camorra. Anna Maria, Elena, Donata e le altre (dodici in tutto quelle arrestate, su un totale di 48 ordinanze di custodia cautelare eseguite oggi dai carabinieri) si erano sostituite ai loro mariti, padri e fratelli, arrivando a controllare tutti i traffici illeciti (estorsioni e spaccio di droga le attività più remunerative). L’inchiesta dei carabinieri del gruppo di Torre Annunziata ha riguardato le cosche dei Falanga e dei Di Gioia, che negli anni si sono succedute sul territorio. Se in una prima fase le donne si limitavano a riferire agli affiliati le disposizioni dei loro uomini detenuti in carcere, col tempo hanno dimostrato una grande intraprendenza e hanno acquisito la gestione della cassa del clan, pagando gli “stipendi” a pusher e taglieggiatori, ma anche retribuendo gli avvocati per l’assistenza legale fornita ai detenuti. Alcune di loro, inoltre, hanno imposto direttamente ai negozianti il pagamento di tangenti o hanno convocato i familiari di collaboratori di giustizia per ottenere che questi ultimi ritrattassero. Gli investigatori, coordinati dal pm Mariella Di Mauro, hanno ricostruito le attività dei due gruppi criminali attraverso migliaia di intercettazioni telefoniche e ambientali, ma anche grazie alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Dalle indagini sono anche emersi contatti con il clan Amato – Pagano, più noto come il gruppo “scissionista” di Scampia protagonista della tragica faida del 2004 e anche dei pi— recenti contrasti sfociati in omicidi nel quartiere. Tra i due gruppi criminali intercorrevano importanti affari legati alla compravendita di partite di stupefacenti importati dalla Spagna; tra gli arrestati figurano anche due cittadini francesi implicati nei traffici. Grazie alle attività illecite, i Falanga-Di Gioia avevano messo insieme un imponente patrimonio, gran parte del quale (per un ammontare di circa 30 milioni) è stato sequestrato oggi. Sospettando che i carabinieri si fossero attivati per il sequestro, i familiari dei boss avevano progettato di vendere a prestanome alcuni immobili: le intercettazioni ambientali in carcere dimostrano quanto questo obiettivo fosse importante per i capi. In alcuni casi erano anche stati sottoscritti i rogiti, ma gli atti finali di compravendita sono stati bloccati in tempo.