Scrivo questo primo articolo del nuovo anno dopo una passeggiata nel bosco. È piacevole camminare senza fretta, un piede metti l’altro levi, il ritmo giusto per riassaporare l’ancestrale sensazione del vagare per sopravvivere. Andare a piedi non c’è dubbio fa bene, l’esercizio rigenera il fisico e ristora la mente, ed è così perché è uno dei pochi aspetti della vita moderna che ci riconduce alla nostra natura animale.
In fondo per vivere bene, stare bene, sentirsi bene, è necessario riscoprire gli aspetti più autentici della nostra vita. Ciononostante per tanti di noi l’esistenza è un vero tormento perché tendiamo ad un benessere falso e costoso. Quante volte siamo stati male, come drogati in astinenza, perché non appagati dai nostri consumi? Vaghiamo per le strade bramando una nuova dose di stupefacente: un telefonino, un tablet, un netbok, un notebok, un’automobile, un paio di scarpe, un vestito, una fetta di carne, una crema rigenerante, un volo low cost, qualsiasi cosa insomma che ci faccia spendere soldi per acquisire oggetti o servizi assolutamete non essenziali.
Spendere, acquistare, soldi, oggetti, consumi, velocità, queste alcune delle parole ricorrenti nel lessico dell’infelicità. Sole, oria, pioggia, vento, amore, morte, vita, tempo, termini dimenticati del dizionario del benessere. La riscoperta individuale di questo antico linguaggio non è difficile, chiunque può cominciare fermandosi per un istante a guardare un tramonto, a considerare la meravigliaosa bontà di un bicchiere d’acqua, la preziosa opera di una foglia.
Più complesso è il cambiamento culturale dell’intera società globalizzata. In un mondo affollato da oltre sette miliardi di esseri umani la trasformazione è necessaria e l’unico modo per ottenerla è osservare la natura. In definitiva i nostri sistemi economici dovranno rifarsi ai sistemi ecologici del pianeta.
I segnali che il cambiamento è possibile, e forse già in atto, ci sono. Interessante, in questo senso, lo studio pubblicato dalla rivista del gruppo Nature ‘Scientific Reports’, fatto da un team di ricercatori italiani dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Isc-Cnr) guidato da Luciano Pietronero, che rivela come l’elemento dominante dell’economia reale è la diversificazione dei prodotti e non la specializzazione, come invece prevede la teoria standard della crescita economica.
“Analizzando i database dell’export si osserva che a ogni paese corrisponde un limite massimo per la qualità o complessità dei suoi prodotti, al di sotto del quale esiste una vasta e variegata distribuzione di prodotti, anche molto semplici”, osserva Luciano Pietronero, direttore dell’Isc-Cnr. “La diversificazione, come strategia economica, richiama i concetti della biologia sull’adattabilità delle specie. Si potrebbe quindi ipotizzare che in un contesto statico la specializzazione costituisca un elemento prioritario, mentre in un contesto fortemente dinamico come quello dato dalla globalizzazione, la maggiore competitività derivi al contrario dalla diversificazione”.
Per verificare tale ipotesi e quantificare l’effetto della diversificazione, il gruppo ha sviluppato una metrica non monetaria, che definisce il potenziale industriale di ciascun paese (fitness) come somma dei prodotti esportati, ciascuno dei quali ‘pesato’ per qualità o complessità. “Il confronto tra fitness e Pil pro capite consente di definire il potenziale inespresso (intangibile) di un paese e quindi di prevederne lo sviluppo economico. Ci si aspetta che un paese con alta fitness e basso Pil pro capite sia destinato a crescere, mentre uno caratterizzato da condizioni opposte sia in una situazione di rischio, salvo che non sia ricco di materie prime destinate all’esportazione”, prosegue il direttore dell’Isc-Cnr.
“All’interno della generale diminuzione del potenziale industriale misurato nei paesi sviluppati, l’Italia conserva una fitness molto elevata, la terza al mondo dopo Germania e Cina. L’economia industriale italiana appare infatti fortemente diversificata e comprende prodotti di notevole complessità, anche se i volumi di esportazione risultano limitati, riflettendo l’organizzazione in piccole e medie imprese che ci caratterizza”, osserva Pietronero. “Applicata alle dinamiche economiche osservate tra il 1995 e il 2010 nei quattro paesi Bric, la nuova metrica rivela poi grandi e finora non apprezzate differenze: al contrario di quanto avvenuto in India e Cina, il potenziale industriale di Brasile e Russia è diminuito nel corso degli anni e l’aumento del Pil pro capite in questi paesi è il risultato dell’aumento dell’esportazione di materie prime”.
Conclude il direttore dell’Isc-Cnr: “Partendo dai moltissimi dati ‘sperimentali’ disponibili si possono introdurre nuove metriche e misurare nuove quantità. Questo tipo di analisi può fornire una nuova prospettiva per la pianificazione industriale di un paese, permettendo di predirne la crescita e di analizzarne i rischi”.
Ferdinando Fontanella