Penso che non ci sia lavoro più bello del nostro. Fare il giornalista, o quantomeno provare a fare informazione in maniera il più possibile corretta e trasparente è certamente entusiasmante. Diventa una vera e propria deformazione professionale stare con l’orecchio teso e l’occhio lungo, seguire quanto ci accade attorno e vivere da segugio col fiuto teso, spesso tartassando politici, forze dell’ordine e, come si dice, le persone informate sui fatti.
Contrariamente a quanto diceva Luca Goldoni, ma solo nel titolo del suo celeberrimo libro “Sempre meglio che lavorare”, fare il giornalista richiede sacrificio oltre che preparazione, abnegazione oltre che intelligenza e lavoro, tanto lavoro. Una volta era il lavoro di penna oggi sicuramente un po’ più di tastiera, ma un gran lavoro. Scrivi, riscrivi, correggi. Punto, punt’e virgola, apri parentesi, chiudi virgolette. Non va! E allora rileggi e correggi. E, infine “… Francè controlla un po’ che ho scritto. Che ti sembra?”
Poi capitano gli errori. Qualche refuso, un titolo con qualche gaffe. Ma quelli sembrano inevitabili e ti consoli sapendo che comunque ce l’hai messa proprio tutta e guardi avanti, nella speranza che il prossimo numero sia sempre meglio.
Non parliamo del web… Anzi parliamone. Correre dietro alle notizie è diventato lo sport quotidiano di quanti come il Gazzettino Vesuviano, oltre al settimanale di carta, fanno anche il quotidiano online. Bisogna provare ad essere i primi. Bisogna provare a lanciare la notizia che non tutti hanno. “La foto, la foto la tieni altrimenti vediamo di farcela mandare. Chi c’era con la macchina fotografica. L’hai fatta con il cellulare? Vediamo come è venuta!”
E tutto questo, almeno per quanto riguarda nostro giornale, tenuto su solo da professionalità e tanta, tantissima, una “camionata” di passione. La soddisfazione di essere riusciti a dare un servizio, di essere stati capaci di mostrare il mondo, magari anche quello dei piccoli fatti di periferia, in modo del tutto nuovo, e di aver contribuito a dare una chiave di lettura a quanti, magari, ne stavano proprio cercando una diversa.
Penso però che ora sia il caso di passare a presentare il secondo soggetto annunciato nel titolo di questo breve, mica tanto, sfogo.
Da qualche anno, proprio con l’avvento delle generazioni digitali, dei social network e di Facebook in particolare, sono nate troppe pseudo agenzie di informazione. Prima si parlava di aggregatori di notizie: siti sui quali venivano ricopiate notizie, scansionate pagine di quotidiani o, semplicemente utilizzando il Ctrl C/Ctrl V, ovvero il copia e incolla, riproposti interi articoli dai vari organi di stampa già presenti sul web. Qualcuno nel tempo si è arrabbiato, qualcun altro ha parlato di copyright e ha aggiunta qualche minacciosa dicitura prima o in coda agli articoli.
Negli ultimi tempi, poi, il fenomeno di questi nuovi “amanuensi” copioni professionisti che, sfruttando il lavoro, l’impegno e la passione di quanti come noi provano a fare del giornalismo, ricavano un po’ di visibilità personale che non saprebbero altrimenti guadagnarsi, si è spostato sul mitico Facebook. E purtroppo il risultato quasi sempre è garantito. Tanti contatti, tanti commenti, tanta visibilità rubata a quanti invece se la sarebbero guadagnata.
È facile “dare un servizio” stando comodamente seduti davanti ad un computer e razziare a destra e a manca articoli, note e comunicati pubblicati su tutti i giornali che parlano, ad esempio di Pompei. Un gruppetto di avvoltoi che, come nei più classici dei cartoni animati o film western, girano in tondo nel web in attesa di colpire, strappare un sanguinolento pezzetto di notorietà a chi magari ha messo delle ore di lavoro dietro poche righe e qualche foto. Ma tanto la dignità appare salva: loro offrono un servizio ai lettori e citano la fonte. Peccato che offrire un servizio è proprio quanto facciamo tutti noi giornalisti, senza nemmeno bisogno di dover citare la fonte, ma solo firmando direttamente il nostro lavoro, assumendocene la responsabilità e pretendendone i meriti.
Gennaro Cirillo