Immigrati in rivolta nei CIE: la riforma non può più attendere.

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Chiusi in un reticolato di grate senza alcuna comunicazione con l’esterno, privati di cellulari, giornali e anche di spazi comuni. Gli immigrati irregolari che finisco nei Centri di Identificazione ed Espulsione (oggi chiamati CIE) in attesa di essere rimpatriati non hanno dubbi: è meglio una prigione.

Esasperati da una procedura di identificazione che può arrivare fino a 18 mesi e spesso privati dei più elementari diritti, “gli ospiti” dei CIE (trattenuti per aver violato una disposizione amministrativa, essere cioè privi di un regolare permesso di soggiorno) continuano a gridare la loro sofferenza dai centri di tutta Italia.

L’ultimo centro ad esplodere è stato il CIE di Gradisca di Isonzo, dove la protesta si è animata  l’8 agosto, giorno di fine Ramadan, quando gli immigrati hanno chiesto, invano, di poter mangiare tutti insieme e non rinchiusi nelle loro stanze.

I cittadini stranieri sono così saliti sul tetto per protestare (due di loro sono caduti e uno versa ancora in condizioni critiche), ma anche per stare insieme e per respirare un po’ d’aria al di là di quei pochi metri quadri di cortile cementato concesso loro ogni giorno.

Da qui i ragazzi hanno lanciato oltre le grate le scatole di psicofarmaci che gli vengono date per calmarsi e hanno presentato alle autorità richieste concrete: domandano che il trattenimento non venga protratto fine al limite massimo di 18 mesi, di poter usufruire degli spazi comuni interni, come la mensa invece di ricevere i pasti in camera, di poter leggere libri o giornali (proibiti perché la carta è infiammabile) e di essere trasferiti in altri CIE in Italia, dove le condizioni di vita sono migliori.

Il centro di Gradisca di Isonzo, definito il peggiore in Italia, non è l’unico ad aver fatto parlare di se. Il giorno di ferragosto è stato chiuso il CIE di Sant’Anna dell’isola di Capo Rizzuto, nel crotonese, reso inagibile da una rivolta scoppiata in seguito alla morte, avvenuta in circostanze sospette, di un magrebino di 31 anni. Disordini emergono con regolarità anche al CIE di Torino,dove non mancano tentativi di fuga ed episodi di autolesionismo, come quello frequente di ferirsi con una lametta.

Le rivolte delle ultime settimane hanno riacceso i riflettori sulla sofferenza dei migranti trattenuti in questi centri, vere e proprie aberrazioni giuridiche, che non solo sono costosissime, ma sarebbero anche poco utili (meno della metà dei trattenuti viene poi effettivamente rimpatriato).

La condizione di vita nei CIE è stata ampiamente denunciata da varie organizzazioni per i diritti umani come Medu e Amnesty International. Anche se i cittadini stranieri che si trovano rinchiusi hanno lo status di trattenuti o ospiti, di fatto si trovano in una situazione di detenzione: sono privati della libertà personale, non posso avere visite né far valere la difesa legale.

Istituiti nel 1988 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano (art. 12 della legge 40/1998),  successivamente modificata dalla legge Bossi fini (L189/2002), dal Pacchetto Sicurezza (L 94/2009) e dal decreto di recepimento della Direttiva Rimpatri (L 129/2011) i CIE ospitano spesso ex detenuti, ma anche persone che vivono in Italia da molti anni, che quì hanno famiglia, e che spesso hanno perso il permesso a causa di un contratto di lavoro non confermato o non regolarmente registrato.

La permanenza nei CIE è disposta dal Questore per un tempo di 30 giorni, prorogabile fino a 18 mesi, “quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione”. Troppo spesso però viene raggiunto questo tetto massimo che ha costi monetari e umani elevatissismi.

Inoltre, i termini della detenzione non sono stabiliti soltanto da norme legislative, ma anche da regolamenti e convenzioni stipulate tra Prefetture ed enti privati tramite gare d’appalto, creando così una privatizzazione della detenzione, le cui regole possono cambiare da centro a centro e portare a situazioni estreme come quelle vissute nel CIE di Gradisca.

Come dichiarato in questi giorni dal ministro per l’integrazione Kyenge una riforma normativa, che rimetta al centro “la persona” e i suoi diritti, è ormai urgente.

In seguito ai fatti di Gradisca di Isonzo anche la provincia di Gorizia si è espressa a favore della chiusura del centro, definendo come fondamentale l’avvio di “una riforma più complessiva delle politiche dell’immigrazione sensibilizzando in primo luogo l’Europa a superare la modalità basata sui respingimenti e ricercando, al contrario canali diretti a mantenere gli stranieri in un percorso di progressiva integrazione.”

Elisa Piccioni

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