L’antico rito della raccolta delle uve si ripete ogni anno sin dalla notte dei tempi. Ma a colorarlo di mistero e magia è la città sepolta, i cui vitigni sono rinati grazie alla collaborazione della SAP e Mastroberardino. Il “Villa dei Misteri”, prodotto dei filari intorno all’anfiteatro, è di un rosso oscuro che sembra tornare dalle viscere maledette e benefiche del Vesuvio, che ha raso al suolo la città donandole una fertilità senza pari, assieme a una bellezza che sembra fermare il tempo e ripeterlo all’infinito.
Così nel Foro Boario o nel Triclinio estivo sembra rivivere l’atmosfera della città romana, quando, in occasione degli eventi celebrati nell’anfiteatro, le magioni circostanti si trasformavano in osterie dove abbandonarsi al dolce oblio bacchico.
Tale ritorno del vino pompeiano è dovuto a un’accurata ricostruzione filologica attraverso scritti, iconografie e rilievi, curata dal laboratorio di ricerche applicate della soprintendenza, diretto per anni da Annamaria Ciarallo, in sinergia con l’azienda vitivinicola campana Mastroberardino, presieduta da Piero Mastroberardino. L’opera sperimentale, nata nel 1994, è cresciuta negli anni fino a interessare oltre un ettaro della città sepolta, per una produzione di circa duemila bottiglie l’anno.
Grazie alle indicazioni di Ernesto De Carolis, attuale responsabile del laboratorio, e Antonio Capone, agronomo dell’impresa avellinese, è stato possibile ricostruire il legame tra la produzione attuale e quella antica. In base ai dati raccolti dagli esperti, infatti, sono state riprodotte le coltivazioni di epoca romana. Il “Villa dei Misteri” contiene l’85% di sciascinoso e il 15% di piedepalumbo, le due varietà presenti nella Pompei del 79 d.c..
A essere riprese, tuttavia, non sono solo le specialità vinicole remote, ma anche le tecniche di lavorazione che risalgono a due millenni addietro. Il fascino inebriante dell’uva, del resto, si mescola alla suggestione dei luoghi in cui l’oro rosso pompeiano veniva anticamente prodotto. Nel Foro Boario, infatti, è possibile ammirare la riproduzione di un torchio a pressa orizzontale e dieci dolia in cui il mosto si trasformava in vino. L’uva raccolta nella città sepolta verrà trasportata nelle cantine di Mastroberardino dove sarà affinata per diciotto mesi nel legno per poi essere conservata ancora a lungo in bottiglia.
Così questo vino antico giunge fino a noi rinnovato e ci fa rivivere i riti e i miti dell’antica Pompei. Là dove i vendemiatores (raccoglitori di uve) costituivano una casta in grado di sostenere politici alle elezioni e i produttori di vino provvedevano al restauro dei teatri. Oggi i soldi per il restauro giungono dall’Europa e i tesori di Pompei fanno la fortuna dei musei stranieri. Almeno l’oro rosso che scorre nella terra vesuviana rimane radicato nelle sue magioni e ci riporta, almeno per un istante, nella Pompei che non c’è più.
Claudia Malafronte