L’immagine che meglio si addice ai crolli di Villa Arianna, causati dalla violenta ondata di maltempo del giorno di Santo Stefano, è quella di un cancello chiuso. Sbarrato in una giornata di tiepido sole di fine dicembre. E’ in un certo senso la metafora di questo paese, delle nostre realtà, segnate da tante eccellenze eppure chiuse alla vista e all’animo. Villa Arianna, così come le altre lussuose ville d’otium del pianoro di Varano, vivono da decenni l’imbarazzo di un’inutile competizione con i siti vicini di Pompei ed Ercolano. E questa corsa agli armamenti, ingiustificata e soprattutto cancerogena, si è tradotta nel solito compromesso all’italiana: abbandono e omertà.
Quest’ultima parola, in genere messa unicamente in relazione ai contesti criminali, vale anche per tutto quel fitto sottobosco legato ai beni culturali campani e, nella fattispecie, per quelli vesuviani. Un cordone di omertà fatto di bugie, silenzi, versioni ufficiali cancellate e riviste più volte, di ordini tassativi della soprintendenza pompeiana volti ad ammantare gli sbagli e le incompetenze di decenni di gestione sciagurata.
E poi c’è la ritrosia, le facce oblique dei custodi che accolgono con un malcelato fastidio chi, in una realtà sempre più marcia, cerca di dare una luce ai fatti. Ma a pensarci bene anche la testimonianza dei fatti è diventata inutile. Perché la segreteria della Soprintendenza “speciale” di Pompei trabocca di segnalazioni, denunce, richieste di interventi. Scartoffie su scartoffie che non hanno generato nulla. Solo affreschi che continuano a gonfiarsi di umidità fino a spaccarsi, tetti antichi rivestiti di coperture antiquate, e in moltissimi casi con sforacchiature e vistose tracce di ruggine dilaganti, pezzi di colonne malandate e soprattutto interventi in cemento armato vergognosi. Vergognosi allo sguardo e soprattutto sfregio alla presunta perizia tecnica che dovrebbe essere dietro questi interventi.
Il tempo delle denunce è finito. Ora tocca alle vie di fatto.
Una strada percorribile è l’incriminazione per danni al patrimonio pubblico di Soprintendenti, compresa la dott.ssa Cinquantaquattro, geometri, architetti, ingegneri e restauratori che negli anni hanno avallato gli scempi e le distruzioni che ora siamo costretti a digerire.
Non serve più fotografare, indignarsi, lamentarsi, dolersi. Serve tirare in ballo procure, questure, tribunali. Perché se non si azzera questa putrida classe di operatori dei beni culturali, figlia di una gestione dei complessi vesuviani imbarazzante, continuerà ad alimentarsi il solito, trito codazzo di prefiche, ovvero di quelle persone che ritengono più vantaggioso piangersi addosso che non ridare dignità e bellezza a un patrimonio archeologico senza pari a scala mondiale.
Angelo Mascolo