“La sensazione – afferma il Prof. Fabio Birotti, etno-antropologo – che subito cresce nell’animo di chi si accinge al sabato dei fuochi o si accosta alla stessa paranza d’Ognundo, è di vera e propria vertigine; è come trovarsi in un santuario mistico e carnale, semplice e prezioso, dove l’icona oggetto di culto si manifesta come specchio del mondo e del volto nascosto di ognuno di noi, santo e grifagno, adolescente e morente. Seguire la paranza d’Ognundo per tutti questi anni ha significato condividere e percepire la loro intera esistenza, la loro commozione e il loro vissuto di credenza, penetrare nella grande e fitta foresta di emozioni e capovolgimenti socio-culturali che ha percorso tutta la loro storia, con la consapevolezza di chi conosce ormai bene l’argomento e sa anche quanto qualsiasi risposta data, possa essere solo nuova ipotesi di ricerca, sempre legata all’ombra di un altro progetto di studio e di approfondimento.
I rituali ai quali si può assistere in questo giorno non sono né pagani né profani almeno nel senso comune che diamo a queste parole o nell’accezione sacro-profano ideata da Émile Durkheim. I riti arborei, i cerimoniali dei fuochi o i canti a’figliola devono essere considerati come pratiche cultuali di fede popolare, e possono essere profani in quanto pro del fānum, cioè fuori e in attesa del sacro. Le stesse tammurriate, dai frenetici tamburi e dagli instancabili danzatori, aldilà del loro aspetto ludico o trasgressivo, sono cerimoniali coreutici sia esorcistici che adorcistici, sono riti di fede popolare dalla loro intensa forza espressiva, purificatoria e liberatoria. Che i riti popolari e le stesse tammurriate siano ricchi di esibizione, di spettacolarizzazione o costruzioni estetiche è segno evidente che la stessa tradizione popolare per sopravvivere ha dovuto assorbire i medesimi linguaggi culturali vigenti nella contemporaneità; sempre nella necessità di apparire, di sentirsi parte di qualche cosa, immagine medesima di quel momento o di un rito di fede popolare, nel sentirsi attori e protagonisti della tradizione territoriale. Essere immagine, apparire, appunto come protesi culturali di sopravvivenza, come segni culturali che la tradizione popolare medesima ha assorbito dall’odierno e centrale modello sociale. Ma in questo caso, in questo gruppo umano, in questo cerimoniale, stiamo parlando di altro; la festa è e diventa un tempo e uno spazio sospeso dal quotidiano dove è possibile incontrarsi nuovamente con la Madonna, con i morti, con tutti i propri cari, che prima di loro onoravano la presenza della “mammarella nostra”,come la chiamano affettuosamente i sommesi, con i medesimi atti rituali; uno spazio altro, ‘ncopp’’a Nuvesca dove è possibile, in quanto statuto e senso,ricevere benefici, contagiarsi, impregnarsi nuovamente di sacro. Il cerimoniale – conclude il Prof. Birotti – in questa paranza continua ad essere un momento eccezionale e commovente, un attraversamento drammatico e angoscioso proprio perché al limite di una dimensione extra-quotidiana, a tu per tu, al cospetto di entità ed alterità potenti, supplicate, anelate e invocate tramite il canto a’ figliola.”
Pasquale Annunziata