Quante volte abbiamo assistito alle diatribe tra sindacalisti e politici mentre nel talk show di turno si accusano a vicenda di essere la causa dei mancati investimenti stranieri in italia. I politici tirano in ballo una strenua ed anacronistica difesa del sistema dell’art 18 dello Statuto da parte dei primi; i sindacati invece denunciano l’assenza di una politica nazionale che incentivi gli investimenti.
Nel frattempo la crisi attanaglia l’economia del Belpaese e come ha detto qualcuno forse la luce intravista qualche tempo fa non era quella del famoso spiraglio, bensì quella di un altro treno proveniente dalla direzione opposta.
La dittatura del segno Meno o del numero Zero domina l’analisi dei mercati europei quotidianamente. Eppure talvolta il segno Più fa ancora capolinea qua e là: l’esempio più clamoroso è quello dell’aumento costante delle cosiddette imprese migranti.
Secondo l’ Eurostat, gli imprenditori di origine immigrata pesano per circa un quindicesimo sul totale degli imprenditori europei. Non a caso nel piano Azione e imprenditorialità 2020 la Commissione europea considera per la prima volta le imprese migranti attribuendogli un ruolo primario per il rilancio economico dell’Unione. In Italia, mentre tra il 2011 ed il 2013 le imprese gestite da italiani sono diminuite del 1,6% , circa 91.000 aziende in meno; quelle create da lavoratori migranti sono aumentate del 9,5% e rappresentano attualmente l’8,2% del totale.
Questi dati sono stati presentati qualche settimana fa, nel silenzio dei media nazionali, dal rapporto Immigrazione e Imprenditoria, un lavoro del centro studi e ricerche Idos, dossier statistico immigrazione.
Secondo l’Idos, la geografia dell’imprenditoria immigrata continua ad indicare nel Marocco il paese in assoluto più prolifico di titolari di provenienza extra UE (62.676, pari al 19,3% di tutti gli imprenditori individuali immigrati operanti alla fine di giugno). Seguono la Cina (46.136, il 14,2% del totale), l’Albania (30.564, il 9,4%) ed il Bangladesh (23.004, il 7,1%).
Gli stranieri occupano quelle fette di mercato che l’imprenditoria italiana tende ad abbandonare perché con margini di profitto ridotti. Si tratta di un dato che ci lascia tante sensazioni. In termini positivi va considerato che tale fenomeno determina la creazione di nuovi posti di lavoro oltre che la rigenerazione di territori sofferenti sul piano demografico ed economico. Se aumenta il lavoro per i migranti allora aumenta anche la loro integrazione e condivisione con la società italiana e tutti siamo più felici.
Sono tanti però i profili che lasciano perplessi, il caso tipico è quello dell’imprenditoria cinese.
In un market cinese troverete di tutto ma provate a chiedere una fattura della merce acquistata, la signora cinese alla cassa con un sorriso beffardo vi risponderà che non fanno fatture e che al massimo dobbiamo accontentarci di uno scontrino scolorito dai dubbi profili di liceità. La concorrenza delle imprese migranti è feroce e troppo spesso scorretta. Abbiamo davanti agli occhi gli operai cinesi ammassati come topi nelle fabbriche tessili di Prato o della vicina Somma Vesuviana. Senza dubbio è vero che noi autoctoni abbiamo per troppo tempo dormito sugli allori creando una società imperfetta di studenti e disoccupati. Ma incrociando i dati di cui sopra, la perplessità resta. E se tra le cause del crollo delle imprese nostrane c’è anche la concorrenza scorretta delle imprese migranti?
E’ un discorso che può sembrare demagogico che, va ben precisato, riguarda la piccola economia e non quella delle multinazionali straniere tanto apprezzate dai nostri politici, quella è infatti un’altra storia; ma è pur sempre la piccola economia che fa l’economia reale. Ditelo ad esempio a Peppe, il tipico proprietario del piccolo super market italiano che tutti abbiamo sotto casa; questi sarà costretto a chiudere, infatti oltre alla presenza spietata dei grandi centri commerciali dovrà ora confrontarsi anche con il negozio cinese aperto qualche metro più avanti. I cinesi hanno tutto, è vero, ma nessuno più riflette sulla qualità dei loro prodotti, sul fatto che molti di essi sono tossici e spesso sono creati con i cascami delle plastiche che noi occidentali vendiamo sottobanco alle fabbriche cinesi. E’ vero anche che molti prodotti venduti dai market italiani sono di provenienza cinese, la globalizzazione, lo sappiamo bene, fa il bello e il cattivo tempo. Ma il discorso è un altro: ben vengano le imprese migranti, ben vengano le multinazionali straniere ma noi italiani dobbiamo ritornare ad essere grandi lavoratori come i nostri nonni e acquirenti intelligenti come le nostre nonne. La crisi non può giustificare i tanti acquisti di poca qualità, il buon Peppe avrà sicuramente qualche prodotto cinese ma ne avrà anche molti nostrani, che costano qualche centesimo in più ma hanno senza dubbio una qualità maggiore. Dunque, se vogliamo che il segno Più torni a comparire anche per le piccole imprese italiane molto dipende anche da noi e da quello che acquistiamo.
Carmine Iovine