M’ infilo insù per i quartieri.
In compagnia di un’amica.
E delle contrazioni ritmiche dello stomaco. Ché la muscolatura del corpo – ho letto su qualche rivista da edicola – produce onde che trasportano acidi e enzimi.
Un po’ per la fame. Sono le otto della sera. E un po’ per l’emozione. A cercare tra i vicoli, i palazzi, le chiese e i milioni di caffè, il Teatro pubblico campano.
Giuro che mi tremano le gambe. Non me l’aspettavo. L’ho sempre pensato che la vita è un fuori onda. Che lei è fuori rotta. Ma trovare due biglietti in platea in seconda fila per una lezione di Alessandro Baricco, per quella stessa sera, si chiama volermi emozionare.
Mi affretto.
Da via Toledo. A pochi passi dalla fermata della metro. Quella più bella d’Europa. E che c’ha nelle sotterranee il cielo di Napoli. Le luci. E il mare dentro.
Chiediamo in giro. Ai ragazzini sugli scooter. Alle vecchiette affacciate ai bassi. Sotto i panni appesi. E le bandiere azzurre del Napoli. E della Nazionale.
Alle signore che contrabbandano stecche di sigarette e non so cosa sotto un telo di plastica. A ripararsi dalla pioggia. E forse dai carabinieri.
Non sappiamo come muoverci. Ci mancano le coordinate.
Ci fermiamo in un bar. Per avere informazioni. E ce ne usciamo con un panino provola e hamburger. Più una Peroni. Per due.
E capiamo l’ economia del vicolo.
Imparo che c’è l’aperitivo alternativo. Ai baretti di Chiaja. E al centro storico.
Sui Quartieri spagnoli. “Da Cammarota”. Con gli Spritz. Come in Veneto. Però coi taralli. Caldi. Mandorle e pepe. Le noccioline. E gli ultimi intellettuali di sinistra. Bevono, fumano e chiacchierano. Insieme ai tamarri. I turisti e gli stranieri. Tutti mischiati.
E la fila di gente che arriva dal mondo per un piatto di pasta e patate da Nennella. È sabato. E c’è festa. C’è folla.
Un microcosmo autosufficiente. Ed io un pò di meno. Ché sembro Goethe nel suo “Viaggio in Italia”. E che mi guardo intorno.
Qui sopra c’è tutta l’umanità. Di qualunque ora. Di qualunque giorno.
M’incanto. E quasi mi dimentico. Della Scuola Holden. E delle Palladium Lectures.
Guardo la pioggia cadere. E mi ricordo che forse s’ è fatto tardi.
Arrivo affannata in sala. Con la provola del panino tra i denti. E la carta di credito in tasca. A scanso di equivoci. O scippi.
Il tempo di infastidire un uomo coi baffi. Per arrivare ai nostri posti.
Le luci sul palco sono già accese. Al centro uno scrittoio. E due file di palchetti. Ai lati.
Occupate dai soliti. Qualcuno pure lo riconosco.
Finti intellettuali. Raccomandati.
Della borghesia napoletana. Che cerca – a volte – di essere gay e radical chic.
Lo spettacolo ha inizio. Con il suo arrivo.
E mi rendo conto che forse un giorno – se mi capitasse di incontrare un uomo così ‘- potrei amare per davvero. La scuola. E la letteratura.
Ha inizio la lezione di Alessandro Baricco.
Che racconta il lavoro di Proust. E le tecniche di scrittura attraverso l’analisi della sua opera.
《Siamo gente che Sabato sera legge Proust, ma non siamo meglio degli altri》Così fa il suo ingresso sul palco.《Buonasera》.
Un proiettore. Una luce. Parole in grassetto. Blue per un pezzo. Rosse. L’altro. Ad analizzare la costruzione della frase. Le pause. Il lessico. Il ritmo. E la punteggiatura. Che non lasciano solo il lettore. Ma l’accompagnano in ritmi d’attesa e di soddisfazione. In una danza senza cieli. E senza tempo.
Il brano tratto da ” À la recherche du temps perdu ” impresso sul muro – alle sue spalle – ci catapulta in un istante nelle sue aule. A Torino. Dove formano “narratori”.
E davanti a tanta raffinatezza stilistica, da spettatrice allieva , quasi incomincio a chiedermi perché Proust scrive così del mondo che vede. Che sente.
Che si sa che l’artista è quell’umano con una fibra più sottile.
Baricco la chiama “una pellicola molto sensibile”. Su cui restano impresse tutte le più nascoste e microscopiche impronte del mondo.
Vero. O vissuto. A volte, talmente vissuto che immaginato.
Con Proust, entri nel mondo. E di nome in nome, entri nel cuore delle cose. Ed hai il mondo. Spiega lo scrittore.
Te lo spalanca. Te lo taglia. Con l’ambizione di guardarci dentro. Con sintassi, odori, nomi, ritmo elastico. E poi te lo richiude. Crea prima il Caos e poi te lo riconsegna. Riordinato. Rinominato.
Un dio o un demone. Della parola. Penso io.
E mentre l’ascolto che parla delle doti persuasive di Proust, di come non puoi non fidarti di un uomo che usa i nomi così. Che ti fa consegnare fiducia alla sua lettura. Alle sue pagine, man mano che scorrono, al suo dissertare. Penso che mi sta fregando, altrettanto. Anche lui. Proprio come Proust.
Che forse è questa la forza della parola. Scritta. O parlata.
Che è la forza dei nomi. Che diamo alle persone. Quando nascono. E alle cose che ci circondano. Ci rappresentano. O ci nascondono. O ci soffocano.
O ci buttano addosso. Per farci sparire. Andare via per sempre.
Che io gli sto credendo.
Che c’ho una tentazione. Fortissima. Di credergli. Dopo una lezione così.
Che forse davvero la grandezza dell’arte sta nel ritrovare e rafforzare quella vita che solo conosciamo. Che è e rimane solo realtà convenzionale – come voleva Proust – e non Vita vera, consapevole, se non scoperta e tratta alla luce dalla letteratura.
Ornella Scannapieco
“In generale io faccio sempre lezione con questo obiettivo: dare delle risposte che a loro volta generano delle domande. È una specie di doppio movimento: da un lato do agli studenti delle risposte, cioè li aiuto a capire com’è fatta una certa cosa, gli concedo il piacere della conoscenza; dall’altro mi sforzo di fargli capire come quelle risposte siano soprattutto delle password per accedere a nuove domande: e in questo modo gli concedo il privilegio dell’ignoranza. Così si ricostruisce la catena del sapere, che è sempre coniare risposte che contengano domande: la progressione di una formazione culturale è tutta lì.
Le Palladium Lectures sono costruite con questa logica”
Alessandro Baricco