Affari tuoi? Pacco, Doppiopacco e Contropaccotto

affari tuoiS’ è rotto lo schermo al plasma. O la lente. C’ho sempre avuto qualche problema con le diottrie.
Mi vedo in tv. Con la mia collega. Siciliana. Accanto.
Maria Santa!
Sembro una foto. Tutta colori intorno. Luci. E pacchi.
Una cera di Madame Tussauds. Eppure mi muovo. Io, la gente accanto. E Insinna. Pure.
Sembro bella. E pure lei. La collega. Con la maglietta color cachi e i capelli neri neri.
E non si vedono le occhiaie. E neppure la tristezza. Dei giorni sempre uguali. Della lontananza da casa. E della dirigente che raccomanda che “Per arrivare a timbrare il cartellino d’entrata alle 08:30 precise, Fantozzi, 16 anni fa, cominciò col mettere la sveglia alle sei e un quarto”
Sotto i riflettori e gli applausi del pubblico si nasconde la stanchezza. Dei treni. Che ci sbattono per tutto lo stivale. E delle poche ore di sonno.
Tutto scompare. Spazio. Tempo. S’ annullano. Nel cassetto dei led. Il presente è il regno dell’inganno.
Ma vedi che diavolerie! Scendo le scale degli ospiti. Apro la serata. Di Affari tuoi. E mi guardo dalla poltrona di casa.
Contro ogni legge che nega il dono dell’ubiquita’. Con eleganza naturale. Sono abituata a vedere Saddam Hussein decapitato, le vittime dell’Isis, le donne lapidate; perché dovrei meravigliarmi di me. Che scendo le scale con il passo di Wanda Osiris.
L’ho sempre detto che per essere belle e provvisorie – come ci vogliono le sfumature di immagini spezzate- bisognerebbe andare su un palco.
Altro che ufficio. A sgobbare. Con gli occhiali. Da nerds. Sui decreti. Tra le polveri. Gli spray per la sinusite. Il radon. E le carte.
Sono le 10,30. Fabrizio. Il ragazzo della Redazione Affari tuoi mi risponde ad una mail inviata per gioco:
“Insinnaaa, voglio veniii’ pure io ai pacchi. Ne ho presi tanti. So’ abituata. Uno più. Uno meno. E se fosse questa la volta buona?”
Così per caso – dal cellulare – a mezzanotte. M’avranno presa per una squilibrata. Insonne.
Incredula, il giorno dopo ricevo una sua mail.
Mi raccomanda la puntualità. 14,45. Dietro Teatro delle Vittorie.
Coinvolgo la collega di stanza. Che ride.
Ci impasticciamo le labbra. Col pennello più forte ci calchiamo di una nuance più rosa le guance. Ché ci consigliano per essere meno pallide alle luci forti delle telecamere.
Lo studio è una parade di addetti alle produzioni, operatori alle immagini, giornalisti, tecnici, fotografi, pompieri, figuranti.
E’ tutto un brulicare di parole.
Ci sta la signora in pensione. Vestita azzurro polvere. In prima fila. Depressa. Che la figlia fa la manager all’Endemol e non sa in quale ospizio metterla e le ha fatto conoscere la D’Eusanio. E ora che l’Alda non lavora più, la piazza come un pacco tra i pacchi. Con il notaio che c’ha le carte e i baffi. Il povero praticante avvocato, che viene con la borsa da lavoro e i suoi codici. Che pesano quintali. Da Reggio Calabria. Sullo studio non lo pagano. E così sbarca il lunario.

C’è una donna nera. Vestita tutta colorata. Verde, rosso e bianco. Forse per sentirsi più italiana. O più accettata. O forse solo perché sono le uniche pezze che ha. A guardarla, mamma Rai ha fatto un’opera di bene; sembra l’abbiano presa dalla strada. Forse non parla manco l’italiano. Direttamente sbarcata.
E poi c ‘ è Ken. L’ animatore. Tutto muscoli. Gluteo alto. E deltoide da esplosione di canotta. Schizza testosterone a macchia di leopardo. Tra le signore. Tra i palchi.
Con le musiche ispanoamericane e balli di gruppo. Come in una convention di promotori di pentole AMC.
Muove fianchi e bacino. Gallo tra galline. Le miss tutte unghie colata di gel, vestitino animalier e orecchino cerchio gigante Madonna anni’80 si scaldano. E sono davvero calde. Arrosto. Come castagne. Pronte a tifare. Che vinca l ‘eroe. Che escano le 500 mila euro. Disposte anche al fatto che non siano loro a intascare.
E l ‘ ormone vola in alto per tutto lo studio. Tra le borgatare. Sotto i loro tacchi. Con le borchie. E fin su’ i capelli.
Che per 25 euro a registrazione si fanno la giornata – m’han detto che in tempi di crisi è diventato un lavoro – con l’illusione di stare in televisione piuttosto che stare a fare le cassiere o le pizzicarole o le lavandare.
Chiuse in una gabbia. Ad applaudire come scimmie. Neanche libere di ridere. Spensieratamente.
E neanche un caffè. Pagato.
Schiave delle battute.

Nella televisione – diceva Umberto Eco – della Signora di Piacenza. Fiera di mostrare le poppe a tutta la provincia per vincere in tv un elettrodomestico. Forse un frullatore.
Una scatola di pensieri studiati. Strutturati. Idee, valori, visioni. Tutti confezionati.
Il libro cuore di Insinna.
Che con la telecamera parla ai sentimenti. Che punta sull’espressivita’ di un volto, sulla flessione di una voce che commuove, con una storia familiare, un numero di un pacco o un amuleto che lega ad una madre o un padre che non c’è più.
Stati emotivi che diventano show. Più importanti delle parole stesse. Al punto che queste non contano neanche più.
E paradossalmente queste aumentano a dismisura. Fino a sovrastare – rumore di fondo che confonde lo spettatore – le immagini.
Dalla rumena che da anni vive in Italia e che si sente Italiana e ci regala il magnetino da appendere alla carta geografica in studio, in segno di riconoscenza. Forse anche all’ottantenne a cui s’ appresta a far servigi. In cambio di una lauta pensione.
E tutti giù di mano ad applaudire. A comando.
Al bimbo che scrive una letterina in cui ricorda che nel mondo e nei cartoni animati coi Gormiti e Hulk c ‘è tanta violenza e che propone di organizzare tutti una bella pizza con aranciata .
Le telecamere inquadrano lacrime inesistenti. Commozioni per pensionati e casalinghe; ragazze single stanche di lavoro o nulla tenenti. Seduti con le mani sullo stomaco. Al caldo. Sul divano.
Insinna è un attore. Nasce attore. Con la fiction Rai Don Matteo. Dove recitava il capitano dei carabinieri. E questo al pubblico non lo deve ricordare. Gli deve parlare la stessa lingua. Ripetendo i suoni e l’accento. Per farlo sentire a casa.
E in modo possibilmente sgrammaticato. Alza la cornetta e recita la sua telefonata con l’immaginaria dottoressa. Roba da schizofrenia mediatica. “Lei ci propone un’offerta molto interessante, dottoressa” ” Non so se mi spiego”. E davvero non si spiega.
Il presentatore si rivolge al concorrente, al pubblico a casa, alle telecamere, e al suo specchio.
Fa da Tv specchio. Mezzo magico. Della scoperta della nostra esistenza. E quindi di ogni nostra piccola esigenza. Auto. Bollette. Luci. Mutuo. Vacanze alle Bahamas. Auto. Pacchetto vita comoda e benefits. All inclusive. Tutti quei premi rimasti sul tabellone sono i sogni che la notte e di giorno a occhi aperti facciamo. Con la bava alla bocca. Guardando gli altri che possono. E noi che non consumiamo.
Ci dà in pasto ciò che vogliamo mangiare. Un’Italia buona che ancora resiste nonostante la corruzione. Balle! Balle! Balle!
Proprio come in un ritmo lento di soap opera, non succede un granché. Sono ore in cui non accade veramente niente. E tutto con un ritmo ed una velocità tale da non concederti pause. A non correre il rischio di farti pensare.
Nessuno vince se non pochi spiccioli.
E quando accade è sofferto. Con musiche Piovani. Ennio Morricone. La Quinta di Beethoven. La marcia della Guardia di Finanza e lo Stabat Mater. Con un girare lento delle telecamere sulle cifre, gli scatoloni celesti, i volti spaventati. Dalla paura di sogni andati in frantumi.
A me piaceva Flavio.
Stavolta c’ avevo creduto pure io e avevo tifato. M’ero illusa. Credevo fosse meno televisione, meno copione.
Sai che c è di nuovo?
Incentivo il furto di Stato. E l’ emissione dei biglietti dei Monopoli e tento la fortuna. Fuori i pacchi. Perché ho la sensazione che quello di via Monte Asolone è un tarocco di Sicilia. O peggio un pacco in un negozio della Duchesca.
Ché è più facile se mi faccio un giro tra i banchetti allestiti nei paraggi della stazione dove si gioca d’ azzardo illegalmente con le tre campanelle e m’infinocchiano perbene. Almeno non me ne accorgo. E credo di giocare. E poi lo faccio all’aria aperta. Con le facce che hanno il segno dei tempi. Senza maschere. Trucchi da camerino. O cerone.

Ornella Scannapieco

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