“Scarrafunera – poemetto lurido/iastemma cantata”: all’Arcas la piéce di Cristian Izzo

scarrafunera“E sta ggente, nzevata e strellazzera/cresce sempe, e mo’ so’ mille e triciento/ Nun è nu vico; è na scarrafunera.”

Da questa terzina, precisamente la quarta del sonetto “ ‘O funneco”, di Salvatore Di Giacomo, nasce la riflessione e la conseguente suggestione, alla base di “Scarrafunera”. Riflessione che poi, come è giusto che sia, prende una piega indipendente e s’allontana dalla volontà della fonte di descrivere una condizione di vita estrema, dovuta a condizioni sociali, economiche, igieniche disastrose e riflette piuttosto su un uso universale dell’essere umano, su una somiglianza naturale tra l’uomo e lo “scarrafone”, che non ha nulla a che vedere con i ben noti clichè riguardanti lo schifo, il ribrezzo provocati da questo antipatico essere vivente e più vicina a quanto detto da Joyce in “Dubliners”, o da Dickens in “Hard Times”.

L’essere umano, come lo scarrafone, non si percepisce come componente di una collettività, ma si concepisce come principio e fine di un Universo a sé stante ed in questo continuo affermarsi e prevaricarsi di “ego” ipertrofici, crea un movimento spastico, violento, convulso e continuo, simile a una danza tribale e pezzente, a metà tra un amplesso da stupro ed una battaglia corpo a corpo, pur restando sempre immobile, nello stesso punto: lo stesso movimento di una scarrafunera (nido di scarafaggi) in subbuglio.

Attraverso gli scarafaggi, che si scavalcano, si calpestano, s’inculano sfregando la loro pancia, sul dorso di quello che sovrastano e si sorpassano sempre, all’infinito, ritrovandosi inevitabilmente al punto di partenza, mescolandosi di continuo, senza cambiare mai di posizione, si riflette sulla confusione tra il dimenarsi e l’avanzare, il muoversi ed il viaggiare: sull’improduttività di un continuo sgomitare, confuso con il superare. Una pesante immobilità, una irrisolutezza nevrotica, che sembra entrata nella quotidianità, di chi s’illude di conquistare il Mondo, rubando la mela del vicino, mentre lui non è in casa, perché occupato a rubare un’altra mela, ad un altro vicino: magari, proprio a lui.

 Cristian Izzo

TRAMA

Scarrafone, non ha nulla di straordinario. Non è superiore agli altri, non è migliore, né ha una coscienza maggiormente sviluppata, per una qualsiasi ragione. E’ uno dei 1300 scarafaggi, che abitano il suo buco, gettato al mondo in mezzo ad altri 200 disgraziati, che non lo riconoscono come fratello e che, come lui, non hanno mamma, poiché non la conobbero mai. Come gli altri scarafaggi, si dimena e dibatte dalla mattina alla sera, tutta la vita, mischiandosi e scavalcandosi continuamente con tutti gli altri, in maniera frenetica ed improduttiva, molto spesso accoppiandosi involontariamente, nel frenetico muoversi del suo nido, con altri scarrafoni e subendo, a sua volta, involontarie violenze da chi tenta di superarlo. Ma scarrafone, non ne può più! Non ha più voglia di fare quella fatica immane e non tollera gli altri scarafaggi: odia, con tutto sé stesso, quel buco. Fino a che una luce, probabilmente un mozzicone di sigaretta, penetrando nel buco comincia ad abbrustolire tutto e tutti: quella stessa luce, che è motivo di disperazione, gli consente di guardare per la prima volta e vedere con chiarezza il luogo ed il modo in cui ha vissuto per tutta la sua vita, insieme agli altri.

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