In bilico tra sacro e profano, la Santurbano con quest’opera si consacra come poetessa dell’etereo, ricercatrice della divinità nel dolore e nelle situazioni più profane, narratrice dell’essere donna. Evince dal disarmante e sapiente racconto di sofferenza, rumore urbano e straziante e ineluttabile pragmatismo del reale, un sussurro di Dio. L’erotismo e il pianto sono al centro delle liriche, la loro lettura, sebbene lasci l’amaro in bocca, è dal retrogusto lezioso. Opera di ampio respiro, traspare una intelligente conoscenza della religione, nel suo significato più profondo, un Cristo vicino ai maledetti, che li comprende come vecchi eroi, come coloro che hanno osato andare al di là della mediocrità e del senso comune e, seppure perduti, percepiscono sempre nell’aria, anche se lontano come una eco, come un’ultima Tule, il profumo della bellezza.
L’amore, la sensualità, il vizio estetico sono mezzi per accedere alla bontà, al bene, al sommo frammento di verità. Il “Kalos kai aghatos” (bello è buono) di greca memoria trova una declinazione inedita, non nelle perfette forme stilistiche o nel racconto di cose belle in sé, perché proporzionate, armoniche, carine, intese come già date, ma bensì è l’amore il solo mezzo che rende anche una contemporaneità fragile, arzigogolante e lacera, divina, meravigliosa nella sua imperfezione. Il “Guardiano di Aiseop” è, insomma, un abbraccio eterno alla corporalità.
Giovanni Di Rubba