Napoli come macchina teatrale, col suo linguaggio diretto, concreto, ricco di simboli e immagini piene di contraddizioni. E di assurdo. Come l’assurdità dell’esistenza, il non sense che emerge nella pièce dello scrittore irlandese che rivolgendosi ad uno dei suoi attori preferiti , Roger Blin, dichiarava:
“Non c’è affatto dramma in Finale di partita, da quando Clov dice la sua prima battuta non capita più niente, c’è un movimento vago, ci sono tante parole, ma non c’è dramma”
Napoli come Beckett, pronti a consegnarti una “reazione ironica di fronte all’assoluto delle sofferenze della vita”. Una risata nera, amara e beffarda che taglia a colpi di coltello i vuoti dell’esistenza umana.
Sul palco Lello Arena veste i panni di Hamm, un anziano signore divenuto cieco e impossibilitato a muoversi, completamente concentrato su se stesso. Al centro del palco occupa il suo spazio. Su una carrozzella. E da qui impartisce ordini al suo giovane servo Clov- interpretato da Stefano Miglio – che al contrario ha problemi a sedersi.
Ordini anche a due bidoni. Che sono i suoi “maledetti progenitori”: Nag col copricapo da Pulcinella e Nell, chiusi nelle loro pattumiere(Gigi De Luca nei panni del padre e Angela Pagano della madre, Nell). La drammaticità della loro condizione è tale da annullare ogni possibilità di commozione: “Non c’è niente di più comico dell’infelicità”.
Dalle primissime battute si avverte la forza di impatto dell’inflessione vernacolare di Hamm. In Clov è solo accennata.
L’azione scenica, dunque le intenzioni del regista, sono ridotte quasi a zero. I due personaggi trascinano la loro vita.
HAMM: Che ora è?
CLOV: la stessa di sempre
CLOV: tutta la vita le stesse domande, le stesse risposte.
Le battute si scambiano nel vuoto di una ripetizione temporale monotona. In una casetta bunker, vicino al mare, anche se i dialoghi suggeriscono allo spettatore che all’esterno non c’è più nulla da fare. Da vivere.
Nulla oltre i confini della stanza. “Zero…zero…zero”. Ciò che regna in un fuori ridotto a spazio immaginario. Clov sale su una scaletta e col cannocchiale alla finestra rivela al pubblico il niente.
Litigano ogni tanto Hamm e Clov, nel tentativo infelice di darsi una direzione. Un senso. Clov vorrebbe andarsene ma non sa decidere. Inchiodato così come è ad un vuoto e ripetitivo finale di partita senza partita.
Con questa regia Pasqual fornisce una lettura assolutamente realistica alla materia principale dell’opera di Beckett: il “senso della fine”.
Lo scrittore statunitense John Barth, in un saggio sulla letteratura diceva di Beckett: “Un artista non si limita a esemplificare il senso della fine: ne fa uso”. E dare vita all’assurdo sulla scena significa innanzi tutto saperlo guardare. Con questo suo esperimento in chiave vesuviana, il regista catalano come uomo e drammaturgo lo sa guardare davvero. E lo fa attraverso le realtà viventi che appaiono nello spettacolo. Facendo così sua l’idea barthiana di “artista”.
Ornella Scannapieco