“Bosseide. La fascinazione del male” è il titolo del nuovo romanzo scritto dal giornalista napoletano, Nando Vitali, che “ripropone il tema del male attraverso la storia di un padrino della camorra”.
Comincia così a descrivere che cosa è per lui Bosseide, nella nostra corrispondenza.
Il mondo, oggi, si muove via etere. E capisci che anche le parole non si perdono più.
Quando intervisti uno scrittore, di solito, è l’assistente a chiamarti, per poi passartelo dopo qualche convenevole. Trovarsi, invece, Nando dall’altra parte del mondo che scrive per te su una tastiera di un pc, senza intermediazioni di santi né supereroi, fa un certo effetto.
Gentile. Da sembrare quasi un vizio.
Ma capisci che non lo è, quando si preoccupa per davvero del suo ritardo di un giorno. Di un solo giorno. Nel risponderti.
L’aspetto con ansia ed emozione.
Mi piace da sempre il suo stile. Che avrei voluto averlo come maestro. E farci lezione.
L’intervista arriva di domenica. Poco prima della presentazione del suo libro alla Feltrinelli, di Piazza dei Martiri, a Napoli, dove – il prossimo giovedì 26 marzo – interverranno con l’autore Francesco Costa, Antonella Ossorio e Silvio Perrella, Piero Antonio Toma(coordinatore), Adele Pandolfi (lettura).
Mi parla del suo Boss e del castello fortezza dove si nasconde e cerca vendetta, e sulle cui mura si depositano su uno stesso strato il male e il bene.
“Il mio boss si ritrova nella condizione di dover scegliere fra il bene e il male. Scelta non facile perché perpetuare il bene in quelle condizioni è segno di debolezza. Ma può nascere anche la necessità di un parziale pentimento, sofferto e doloroso, perché appunto il male di boss non è mai banale. Ripeto, nasce dalla necessità di mantenere un potere che è amministrato come un capo di Stato che vuole il bene del suo popolo. Da qui una sorta di epica interiore che non è l’esaltazione delle sue gesta, ma l’intricato percorso di una mente criminale che è sul punto di essere “attaccata” dal bene quando i sentimenti (il rapimento di un bambino di un clan rivale) prevalgono sulla vendetta.”
Napoletana in espatrio, ma sempre napoletana, con la bellezza di una città negli occhi, ma anche con la consapevolezza di quanto tutta questa bellezza ci costi, non posso fare a meno di chiedere se in una realtà come la nostra, che ha la faccia nera di Camorra, può esistere il perdono.
La sua risposta è sincera. Forte. E’ Indagine sui sentimenti e le contraddizioni che affollano le strade di Napoli.
“Il perdono è una faccenda intima e personale. Non possono esserci delle indicazioni certe. Il perdono facile nasconde una certa indifferenza. Il perdono vero deve passare attraverso varie fasi e non può cancellare il peccato di partenza. E ci sono cose che non possono essere perdonate. Per quando riguarda Napoli direi, per citare Pino Daniele, che è nera a metà. E ci sono traumi storici non ancora digeriti che possono spiegare certi comportamenti. Naturalmente non può essere un alibi, ma il cuore degli uomini va osservato dal di dentro per poterlo capire. Secondo me è dal sentimento di giustizia sociale che il giudizio su Napoli deve partire. E nello stesso tempo è raccordando la distanza fra la politica e l’arte che si può contribuire a migliorare le cose. Una città è prima di tutto un luogo, una sorta di serra nella quale si possono raccogliere frutti buoni se si creano le situazioni perché ciò accada. Comunque a volte si ha la sensazione che città abbia una sua tragica capacità di non farsi mai del tutto travolgere dagli eventi.”
I fatti di cronaca ci insegnano che pentirsi e lottare contro la camorra fa male.
Mi viene in mente tutto quello che succede in Italia da sempre. E le ultime notizie di cronaca.
“Se esco e parlo, il Parlamento cade”. Questa l’accusa di Cutolo.
E non posso fare a meno di sapere qual è il suo punto di vista al riguardo.
Cosa ne pensa.
“Penso che come dice Franco Roberti, la zona grigia è molto ampia, e non tutti sono disposti a farsi ammazzare. Il male in sé esisterà sempre perché l’egoismo spesso prevale. Ma se gli uomini migliori si consorziano e diventano molti (penso ai consorzi, alle associazioni, alle cooperative…) forse le cose possono migliorare. Il male si cura, la stupidità e l’indifferenza no. Per esempio in ambito editoriale contro la forza delle grandi concentrazioni editoriali se i piccoli editori si consorziassero, rinunciando alla loro sicumera, con maggiore umiltà…”
Il nostro viaggio continua nelle viscere della città. La città che lo ha ispirato. E che è sua. Che è mia.
E non potrebbe essere diversamente, visto che mai come negli ultimi anni si grida alla giustizia sociale.
Il male avuto e il perdono attengono alla sfera intima, o riguardano anche la coscienza di un popolo, di una collettività? Di una città violentata, ferita?
” Il perdono è un fatto intimo e personale, la solidarietà e la cooperazione riguardano tutta la comunità. E il ricordo, come nel caso di Siani. Un film come quello di Marco Risi o un romanzo come L’abusivo di Franchini possono servire a non dimenticare”
Giuseppe ha vinto, la Mafia ha perso. Hanno scritto in passato sulla storia di Giuseppe di Matteo, vittima dei Corleonesi.
La Mafia come la Camorra puzza uguale.
Sciogliere un bambino nell’acido nitrico.
Ci sono fantasmi che però non fanno dormire. Che hanno un sapore nero, maledetto, sofferto.
Gli domando se l’orrore si può guardare in faccia. Se si può perdonare o almeno dimenticare.
Le sue risposte non sono mai scontate. Sono un modo di vedere insolito e inaspettato:
“Napoli è una città che se anche ha una struttura verticale e qualcuno dice che ti ferisce a morte se la guardi direttamente in faccia, va guardata senza temerla. La verità è sempre celata nell’oscurità, non nella luce della normalità che spesso è peggio del buio. Ma uccidere è un segno di debolezza oltre che di crudeltà.”
Andata e ritorno dagli inferni. Chiedo quasi soluzioni.
Il bimbo che il protagonista del romanzo Boss ha fatto rapire, per vendicarsi dell’assassinio di suo figlio Michele, scopre il suo lato umano.
Voglio il finale di favole e gli chiedo:
Può la purezza di un bambino far commuovere un Boss? Quel bambino diventa per boss come il figlio assassinato dal clan rivale. E lo aiuta a ritrovare una certa innocenza residua dentro di lui. Si insinua il dubbio. Boss è un personaggio manzoniano e nello stesso tempo tragicamente scespiriano. Nel tuo romanzo “bambi” intenerisce il cuore del cacciatore?
“Il mio cacciatore resta nel dubbio fino alla fine, poi capirà che non ci sarà un dio che interverrà per fermare la sua mano come è accaduto con Abramo.
Lui è solo con la sua coscienza. Il silenzio della natura o di Dio sono un segreto insondabile di fronte al quale restiamo annichiliti.”
E’ sorprendente nel descrivere i contrasti e l’impietosa analisi che fa delle dinamiche interpersonali che rendono più vicino a noi tutti il suo personaggio crudele e sanguinario.
E’ un cantiere gigantesco la sua mente. Un continuo lavoro.
Gli faccio l’ultima domanda.
Hai scritto per Manifesto, Il Mattino e scrivi per Repubblica. Che cosa rappresenta invece per te il mondo Achab?
E’ un momento di vita o un pezzo di cuore?
“Achab rappresenta le ossessioni dello scrittore. La sua battaglia per la vita oltre il male che è dentro di lui. La vera balena è dentro Achab. Il lato avventuroso della scrittura mi affascina perché la letteratura e la vita, pur non coincidendo, sono sangue mischiato. Non c’è uomo che non si confronti con questo tema del viaggio come un insieme di porte strette da superare, e di inferni da attraversare senza restarne intrappolati. Achab è il mio cuore condiviso coi miei compagni di viaggio, senza approdi, ma è l’occasione del viaggio nel modo omerico dell’eterno ritorno, oltre Nietzsche e oltre le colonne d’Ercole”.
Ornella Scannapieco