Il Papa a Napoli, padre Zanotelli: “Io sto con l’altra città”

padre Alex ZanotelliIl missionario comboniano Alex Zanotelli: “Il Papa ha fatto bene a venire, perché la Chiesa deve parlare al cuore della gente, ma Napoli è una città divisa”.

Sabato il Papa è venuto a Napoli, ma c’è chi ci vive da ormai dieci anni e conosce le problematiche della città meglio di chiunque altro. Questa persona è padre Alex Zanotelli, un missionario comboniano nato a Livo, in provincia di Trento. La sua casa, però, è sempre stata in mezzo ai poveri, edificata sull’amore e la solidarietà che ha generosamente donato loro. Prima in Sudan, poi in Kenya, oggi a Napoli.

Molte le sue battaglie a favore dei più disagiati, condotte non solo sul campo, ma anche attraverso le pagine del mensile “Nigrizia” (di cui è stato direttore dal 1978 al 1987) e della rivista “Mosaico di Pace” (che dirige dal 1990 per espressa volontà di don Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi),  o anche tramite il movimento “Beati i Costruttori di Pace”, da lui stesso fondato tra il 1985 e il 1987.

Dal 2005 si batte per i napoletani, uno dei popoli che ne ha più bisogno – come rivela nell’intervista. Lo fa dal quartiere  Sanità, una di quelli che egli chiama periferie, termine utilizzato dallo stesso Pontefice. Proprio a lui, allora, abbiamo chiesto di aiutarci a riflettere sui temi più importanti affrontati da Sua Eminenza

Sabato il Papa è venuto a Napoli. Lei ci abita da 10 anni. Perché ha scelto di stabilirsi proprio nella città partenopea?

Questa scelta l’ho fatta di ritorno da una delle più grandi periferie del mondo, Korogocho (Kenya). Volevo vivere in una grande metropoli del sud e ho scelto Napoli perché mi sembrava una delle città con più problemi. E dopo 10 anni posso confermare che è vero. Ho deciso, inoltre, di stabilirmi in una delle zone più periferiche e problematiche della città, il quartiere La Sanità, per continuare a stare accanto ai poveri e agli ultimi.

E qual è, secondo lei, il problema principale che attanaglia il capoluogo campano?

Direi che è proprio lo stesso che rinvenuto a Nairobi. La capitale del Kenya è divisa in due città. In pochi kilometri si passa dal Paradiso all’Inferno, dalla ricchezza più smodata alla povertà più totale. Qui a Napoli la situazione non è grave come lì, ma ho trovato comunque due città. In una si vive bene, ma poi c’è un’altra Napoli, dove vi sono problemi di ogni sorta, da quelli economici a quelli sociali.

Come si fa a mettere una periferia al centro della società?

Bisogna fare una cosa molto semplice. Prima di tutto i cittadini devono capire che non si possono avere due città, perché se c’è una parte che va avanti e l’altra no, poi quest’ultima prima o poi si ribellerà. E’ quello che accade nelle baraccopoli, ma può accedere ovunque, non ci si scappa. Il compito di far capire ciò dovrebbe essere soprattutto della politica. Questa dovrebbe creare ambienti dove tutti possano vivere una vita dignitosa. Purtroppo oggi la politica conta ben poco. Quello che conta sono i soldi, gli interessi, gli accordi con le banche. Nessuno ha interesse a creare città più vivibili ed abitabili.

La Chiesa in questo senso potrebbe dare una mano?

La Chiesa può dare una grande mano. Le parrocchie, noi sacerdoti – come dice il Papa – dobbiamo uscire dalle nostre strutture, dove siamo belli comodi e andare nelle periferie. Dobbiamo stare con i poveri e gli ultimi per dare loro il nostro aiuto. Purtroppo, però, in Italia non è così semplice. Molto spesso noi restiamo barricati nei nostri begli edifici e non facciamo il nostro dovere. Ma la Chiesa ha anche un altro compito e un altro potere, quello di toccare il cuore della gente. Dovrebbe toccare soprattutto quello di chi sta meglio, per far capire loro che non è giusto arricchirsi, mentre gli altri nostri fratelli sono sempre più in difficoltà. Fa parte del compito della Chiesa creare una società dove tutti possano vivere e vivere bene.

Il Papa, però, ha richiesto una maggiore fratellanza anche all’interno della Chiesa. Ci sono troppi interessi anche lì?

Il Papa nel rivolgere questo appello ai sacerdoti ha voluto invitarci a cercare maggiore collaborazione tra di  noi, sulla base di un dialogo più bello e solidale. Ha detto che ci sono troppe chiacchiere e che queste fanno terrorismo. Sono d’accordo, perché le chiacchiere uccidono. Ma all’interno delle comunità ci sono sempre più conflitti e questi sono la negazione di ciò che dovrebbe essere una comunità cristiana.

Ma in che senso una parola può essere una bomba?

E’ lo stesso Giacomo, nel Vangelo a dire che la lingua uccide più della spada. Noi spesso pensiamo che si può uccidere una persona pugnalandola, ma la si può uccidere in tante maniere. Ad esempio sparlando di lei, parlandone male, calunniandola. Magari non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma con queste azioni faccio un immenso male e creiamo conflitti che non dovrebbero esistere. Ha ragione il Papa.

Il Papa ha parlato anche di affarismo. Lei stesso ha scritto un libro che si intitola “Soldi e Vangelo”. L’interesse economico potrebbe essere un altro problema della Chiesa?

Certamente il Papa ha fatto molto bene a parlare di affarismo, perché Cristo non era un uomo ricco ma un povero e noi dobbiamo inseguire il suo insegnamento. Invece in questo libro faccio notare che molto spesso l’insegnamento di Gesù sui soldi non lo pratichiamo. Un gesuita inglese dice che noi leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo. Quindi sostanzialmente noi tradiamo la Parola di Dio. Basterebbe chiedere dove le parrocchie hanno i propri soldi. Se li hanno, per esempio, in una banca che finanzia armamenti è irregolare; se li hanno in banche che depositano soldi nei paradisi fiscali è anche questo immorale. Noi abbiamo una responsabilità morale di come guadagnamo e usiamo i nostri soldi e i sacerdoti dovrebbero aiutare la gente a capirlo. Durante le omelie dovremmo cominciare a dire ai fedeli che è immorale giocare al gratta e vinci o investire in borsa, perché si guadagnano soldi senza lavorare. Dobbiamo farci bastare quello che abbiamo lavorando, senza cercare do arricchirci. E’ tutto l’insegnamento di Gesù che come Chiesa dobbiamo riscoprire e praticare.

Insegnare la Parola di Cristo è compito anche dei missionari come lei e Bergoglio ha invitato ad uscire fuori per predicare. Lei nel libro “Il Dio che si svuota” dice che uscire fuori, però, è anche uscire da stessi, è svuotarsi di sé. Che significa?

Sì, il Papa, soprattutto nell’Evangeli Gaudium, ha insistito molto sull’aspetto missionario. Ma ogni battezzato è chiamato ad uscire da se stesso e ad annunciare il Vangelo. Ecco perché il Papa dice “uscite dalle sacrestie, uscite dalle chiese, andate per strada, a trovare la gente”. Soprattutto gli ammalati, gli anziani soli, gli immigrati i rom, i senza fissa dimora. Tutte queste realtà di grande sofferenza hanno bisogno del nostro sollievo. Questo è il senso delle comunità cristiane, uscire fuori per far sentire tutti parte di quella comunità.

Una volta usciti fuori, poi bisogna saper comunicare con l’altro. Come si fa?

Per comunicare con l’altro prima di tutto dobbiamo svuotarci di noi stessi. Molto spesso siamo pieni di noi, del nostro ego e non riusciamo a comunicare. Pensiamo di sapere tutto, di avere sempre ragione. Invece non è così. L’uomo ha bisogno degli altri, ma bisogna aprirsi e mettersi nelle condizioni anche di ascoltare. Però, non dobbiamo sentire solo chi dice quello che pensiamo anche noi, ma è importante ascoltare anche chi dice cose che non conosciamo e addirittura che non condividiamo. Ciò vale anche sotto l’aspetto religioso. Noi cristiani dobbiamo dialogare anche con i fedeli di altri religioni, perché ci arricchiscono e ci aiutano ad essere ancora più cristiani. Questo, però può avvenire solo se ci svuotiamo. Se, invece, continuiamo a pensare che siamo la cultura, la civiltà, la religione, è chiaro che non incontriamo nessuno.

A proposito di dialogo, se lei avesse potuto fare una domanda al Papa, cosa gli avrebbe chiesto o di quale argomento avrebbe voluto parlare con lui?

Sono tanti gli argomenti di cui avrei voluto discutere col Papa. Ma se ne avessi dovuto scegliere uno, gli avrei parlato dell’acqua. Ecco, lui è stato a Napoli, che è la sola città ad avere la gestione pubblica dell’acqua. Io gli avrei chiesto di parlare di più di questo bene preziosissimo. Non si possono privatizzare le condotte idriche, perché l’acqua è un diritto di tutti e no si può guadagnare con essa.

Il Papa ha battuto molto il tasto  anche sulla misericordia e la speranza. Qual è la sua speranza per Napoli?

La mi speranza riguarda quello di cui ho parlato all’inizio, la divisione tra le due città. Auspico che queste comincino a guardarsi in faccia a darsi una mano l’una con l’altra. Lo ritengo fondamentale, perché se i napoletani si sentissero toccati al cuore dai problemi che sussistono e si dessero una mano per risolverli potrebbero nascere tante cose belle per questa città. E’ importantissimo metterci insieme per il bene di tutti. Ognuno sta andando per proprio conto. Ad esempio, posso citare il problema dei rifiuti. Non siamo capaci di formare un unico movimento. Don Milani diceva che uscire dai problemi da soli è egoismo, e noi a Napoli siamo spesso abituati a voler risolvere le questioni singolarmente. Uscire dai problemi tutti insieme, invece, vuol dire essere una città.

Michele Di Matteo

 

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