La musica trobadorica di Gigi D’Alessio

gigi d'alessio stilnovoCerto la musica partenopea è diffusa e conosciuta in tutto il mondo, in particolar modo quella classica, tardo ottocento-inizio novecento, che affonda le proprie radici nei canti dedicati al sole del ‘300 napoletano, passando per la “villanella” del XVI secolo. Libero Bovio, con i suoi storici pezza-capolavoro “Lazzarella”, “Guapparia”, “O Zappatore”, Lacreme Napulitane”, spesso riprese negli anni ’70 e reinterpretate magistralmente da Mario Merola in film musicali oramai epici e specchio di una cultura che, ahimè, tende a scomparire.

Poi Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo, E.A. Mario. Nel secondo dopoguerra, complice il Festival della Canzone Napoletana diversi successi furono composti, altri riproposti da artisti del tenore di Aurelio Fierro, Mario Abate, Sergio Bruni, e via discorrendo, e dominava, poi, l’internazionale, poliedrico ed abile miscelatore di sonorità e stili, la modernità dell’epoca tradotto in termini napoletani, o forse viceversa, del maestro Renato Carosone. Gli anni ’70, furono l’epoca d’oro dei film musicali, oltre al già citato Mario Merola, Nino d’Angelo, che irruppe sino agli anni ’80 con le canzoni da “scugnizzo”, per poi ripresentarsi ad inizio di questo secolo con pezzi colti e musica d’autore.

Ma c’è anche il blues di Pino Daniele, il jazz di James Senese, le sonorità di Enzo Gragnaniello, per poi giungere al rap, al reggae, al dub, e alla canzone di protesta dei 99 Posse e a quella un po’ più folk degli Almamegretta. C’è poi, infine, quel corpus all’apparenza omogeneo etichettato come musica neomelodica, spesso o quasi sempre di fortuna solo locale e disprezzato dalla critica maggioritaria, per i ritmi eccessivamente moderni e semplici ed i temi ed i concetti espressi nelle canzoni che, spesso, sono ritenuti discutibili o superati ma che, probabilmente, rappresentano l’unica ultima voce di una cultura che tende a scomparire, ad essere cancellata per sempre, spazzata via dalla globalizzazione fagocitante di generi.

Ma proprio perché quello neomelodico non è un corpus unitario, e proprio perché ciò che spesso viene definito trash in realtà cela delle sublimità nascoste voglio analizzare alcuni testi di un cantante, oramai big della musica leggera italiana e conosciuto anche all’estero, godendo di ottima e meritata fama. Parliamo di Gigi D’Alessio. Ma quello preso in considerazione sarà il Gigi degli albori, ed in particolare i suoi testi, scritti con la collaborazione dell’autore Vincenzo D’Agostino, autore che, come vedremo di qui a poco, ha utilizzato tutta la sua potenza creativa ed il suo estro per creare atmosfere, situazioni, e schizzi di vita che sarebbe un peccato non rivalutare. Sotto le sonorità pop di D’Alessio, abilissimo musicista, la penna di D’Agostino ha saputo tracciare un percorso che accompagna il piano del D’Alessio conducendoci in un mondo, per noi napoletani, vicinissimo e scorgendo una realtà che forse non conoscevamo, aprendoci ad un mondo del tutto nuovo ma che è sempre stato sotto i nostri occhi, ponendo in essere una rivoluzione copernicana, una scoperta del Nuovo Mondo che, tuttavia, è passata, nonostante i successi, sotto lo “sguardo muto” della critica.

Il D’Alessio di cui parlo è quello all’apice del suo genio artistico, ricomprendo il periodo che va dal 1992 al 2001, ossia dal suo album di debutto, “Lasciatemi Cantare”, a “Il Cammino dell’Età” e si scopriranno dei pezzi meravigliosi, che restano nel DNA dell’artista ed in quello del suo autore, per un breve tempo abbandonato, ma per la magia e la maestria con cui hanno saputo raccontare, reinventandola, un’epoca storica utilizzando schemi di un lontano passato, resteranno nella storia e, lo ripeto, andrebbero rivalutati. Per la precisione gli album sono: “Lasciatemi Cantare”, “Scivolando Verso l’Alto”, “Dove mi Porta il Cuore”, “Passo Dopo Passo”, Fuori dalla Mischia”, “E’ Stato un Piacere”, “Portami Con Te”, “Quando la mia Viat Cambierà”, “Il Cammino dell’Età”.

Ovviamente è arduo ed estremamente complesso, nonché quasi impossibile, analizzare tutti i brani realizzati nel decennio di riferimento, per questo mi soffermerò su quelli, a mio avviso, più significativi. Non sempre seguirò un preciso ordine cronologico, andando a “rempaira amore”, usando le parole del Guinizzelli, ma tuttavia mi soffermerò su quattro punti fondamentali, punti chiave delle liriche e che ne mostrano la affinità e la piena aderenza ad uno stile forse oggi irrimediabilmente perso, perso nei concetti e nella weltanschauung, perso nei nuclei tematici. I punti sono il tradimento, la visione della donna angelo, il rapporto con la divinità ed in particolare con Dio ed infine il rapporto amato-amante che rispecchia, manifestandolo, un ruolo della donna forse dimenticato ma magnificente e che merita di essere riscoperto.

Il “fin amore” cantato da D’Alessio, l’amor cortese, si estrinseca e pervade questi nove album. Fortissima è la “mezura”, cioè la “misura”, la distanza tra fuoco passionale e cortesia dell’amante, o tra carnalità e realtà dei fatti nel caso di un possibile adulterio. La donna assume in sé tutti i valori, mentre, l’amante-vassallo proclama la propria indegnità e nullità, ci troviamo in alcuni casi, addirittura, di fronte al cosiddetto “Fenhedor”, l’uomo che di fronte alla donna amata non è in grado di manifestare i sentimenti e ne soffre segretamente; in “Dove Sei”, ad esempio, il cantore sentenzia “ho paura, non voglio morire/ sono solo un vigliacco d’amore che vive di te”, proseguendo con la visione della donna angelicata, parlare di lei è pura contemplazione descrittivo-visiva, una visione viva e tormentosa che diviene cristallizzata e, ovviamente, irraggiungibile “se fossi stato un miraggio la bolla d’amore scoppiava in un attimo sai” ma è al tempo stesso l’unica ragione d’esistenza, di ascesa, di purificazione “senza te/ mi regalavo nei letti al momento/di chi mi desidera/ potevo vivere così” l’amore candido e puro in contrapposizione a quello carnale e terreno.

Questo un assaggio d’amor cortese dalessiano, ma passiamo alla tematica del tradimento, presente soprattutto nelle liriche dei primi album. In “Nun ce fa sentere” il cantore inverte un po’ la conclusione canzonistica del “va per le strade e tra la gente”, la modella, la plasma, e ne soffre, canta in segreto, per lei, ma la gelosia lo pervade, e l’invito alla canzone non è quello di correre per anfratti e viali diffondendo il messaggio, ma quello di un suono che si smorza nel suo sussurro e si ribella ma non può vocalizzarsi “e si te sient’e canzone cu chist’ int’a machina/ truov’ na vota ‘o curaggio sultant’ ‘e cio’ dicere:/ nun se l’adda ‘a sentere cchiu’/ pecche’ chi ‘e canta ha fatt’ ‘ammore cu tte,/ e tutte sti frasi tu ossaje/ sul’a te t’appartenen’,/ nun ce fa sentere”.

Da buon cortese D’Alessio ha anche un senal per la donna amata, che si presenta talora in alternativa ad un’altra ragazza che si ha vicino ma che non si ama, meglio che si ha vicino per convenienza e non per amore, un po’ come i matrimoni di epoca stilnovistica. E tale donna, come quella che “tanto gentile e tanto onesta pare”, come la Beatrice dantesca, ha tutti i pregi e le virtù della donna. Questa Laura, questa Beatrice, questa Fiammetta talora e via discorrendo è “Annarè”. Donna dai costumi morigerati, come ci è presentata nell’omonima canzone “Te ‘ncazzave agni vota ca dicevo/si te spuoglie sarrai cchiu bell’ ancora/rispunniva non song chella lla’/ca si tu le prumiett’ ‘o core/ te da’ tutto dint’a na sera”, piccola e dolce, dallo sguardo salvifico, in Bellissima, infatti, c’è un disperato desiderio di salvezza espresso dal cantore, il quale vede nell’amore della donna angelo l’unica speranza di gioia eterna “amami anche tu/per volare in alto più degli angeli/dimmelo anche tu/che si può abitare sulle nuvole”, di una gioia celeste e lontanissima che solo la donna può portare a compimento “dimmelo anche tu/che la luna non è irraggiungibile”. E l’illusione di uno sguardo dell’amante vassallo che implora la redenzione “che cosa devo dire/per farti innamorare/lo vedi che sto male davvero”. E l’amante vassallo si mette in “Ma chi ce Sta” completamente a servizio del suo “midons”, della sua divina padrona “Ma chi ce stà/ ca se vennesse ll’aria si servesse a tte’/ che va all’inferno si ce stisse tu/ che dint’e pann’ a sera t’adda respirà”.

Anche in “Fotomodelle un po’ povere” c’è la visione di una donna angelo che si contrappone a valori basso-borghesi e laici del successo e della fama fine a sé stesse per portare, l’amato, a contemplare un mondo idilliaco, un paradiso di povertà sublime e salvifica, una magica donna, la stessa di “Guagliunce”, che sebbene possa sembrare una donna di facili costumi ha, nella spensieratezza ed ingenuità edenica, nello sguardo da modella povera, la bellezza ai massimi fattori, che può catapultare l’amante, sperso nelle retrovie di una esistenza inautentica, lungo i dolci sentieri di un amore puro e disinteressato.

Ma passiamo ad un aspetto altrettanto interessante, che è quello del rapporto con la divinità, con Dio in particolare ma anche con i Santi. In “Anna se sposa” notiamo passi di una struggente fede vassallica dell’amato che, venuto a sapere delle nozze della sua amata si scuote come Dante per la giovine morte di Beatrice, ma in questo caso invita a desistere, conscio della protezione divina che ha il loro amore, essendo il primo amore; una poesia e una virtù di altri tempi, ove Dio è invocato in modo quasi colloquiale “Anna si overo te spuse cu nato/ int’ a chiesa faje scem’ a Gusù/ nun te a scurdà quanta vote ‘e pregato pe mme/ chillo s’incazza all’inferno si more/ decide chi t’adda mannà,/ e manco cchiù mparaviso cu mme mano a mano/ te pozzo tenè”, concludendo poi, laconico e quasi rassegnato, “Anna si overo te spuse/ tu faje tutt ‘e cose annascuso a Gesù/ senza trasi’ dint’ a chiese si ‘a stessa mugliera/ vatte accatta’ nu vestito addo manche e buttune so bianche/ Annarè/ sulo accussi’ forze Dio/ nun ‘o vvene a sape’”. “Meza Bucia”, è esemplare in tal senso, una vera e propria agiografia della donna amata, donna terribile e bellissima, che fu “inventata” da Gesù su proposta dei santi tutti, ma poi l’arrivo di Dio Tonante impone che una donna tanto bella e spietata non è demoniaca ma bensì deve rappresentare il mezzo sublime per la conversione di chi la amerà perdutamente. Il peccatore si salva grazie all’incanto della donna amata che rappresenta, forse, l’asprosità dell’ascesa al Monte Ventoso della virtù. Una canzone che, magari, è da monito alle facili separazioni e divorzi di oggi e che ci insegna come le difficoltà sono la via per raggiungere le più alte cime della gloria.

Talora, quindi, l’abile cantore partenopeo assorbe tanto di lirica provenzale e la sua donna amata diviene spietata. Il tormento tuttavia è catartico, la gelosia talora svanisce, come in “Una notte al telefono”, dialogo tra giovani amanti in cui l’innocenza di un amore puro vince, con la sua furia, le temperie distruttive della gelosia.

Ma talora l’amante-vassallo è straziato, come in “Una Magica Storia d’Amore”, ove la donna è caduta dal cielo, come una stella, o meglio, come una star di Hollywood, “ Sembri quasi caduta dal bianco telone di un cinema/ o da un noto giornale che parla di pubblicità/ io per starti vicino ho dovuto cambiare pellicola” e dove la donna lo fa soffrire, trattandolo come uno straccio, ma lui, ciononostante, non può rinunciare a lei e perciò la implora “f’ampress accireme/ nun me fa vere’/ comm’ è brutt a vita senz’ e te”. Ricompare dunque la donna angelo nel travaglio, con lo sguardo salvifico, ma da dietro gli occhiali “dai vetri un po’ fotocromatici”. Oppure in Amore Mio, la fine spietata di un amore in cui “il tuo silenzio sembra dire hai fatto centro”, e dove “è venuta la fine del mondo soltanto per me”.
Tanti sono ancora i testi che potrebbero prendersi a riferimento, il viaggio tuttavia nella canzone trobadorica dalessiana, nello stilnovo napoletano, per ora si conclude qui, sperando di aver aperto, tra sorrisi e ricordi, uno spazio di riflessione su un periodo della storia musicale napoletana ed italiana sul quale non si può, a mio avviso, tacere.

Una musica in cui la donna ha un ruolo centrale, magico, meraviglioso e divino, ove si sussurra Maria Caelo Repecta, nel ricordo, per accostarla in maniera imperfetta ma sublime alla Maria Caelo Recepta. Gigi D’Alessio cantore di altri tempi, un accostamento forse azzardato, ma emblema senz’altro di una musica dagli alti valori morali e culturali, ove si cantava “Io se ti perdo/ posso dirti quanto/ l’ultimo tramonto/ fa morire l’anima” e si sospirava “se ti perdo/ lascio questo mondo/ troverò il sorriso/ solo in paradiso”.

Giovanni Di Rubba

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