Pomigliano e l’arte dimenticata. L’immacolata Concezione del fiammingo Teodoro d’Errico

pittura fiamminga pomiglianoPomigliano è nota ai più, sia a livello nazionale che locale, come cittadella industriale. Città dei grandi stabilimenti automobilistici, che ne hanno fatto la fortuna, teatro delle lotte sindacali degli anni ’70 e ’80, nonché di quelle di inizio secolo, e delle più recenti contro la legislazione sociale vigente ed in fieri -io direi ed anzi dico in facere- sempre più vicina all’individuo, sempre più lontana alla persona.

Ma Pomigliano non è solo questo, non è solo il paesino sviluppato dal ’39 con la costruzione delle palazzine e della fabbrica ed aeroporto ad opera del cavaliere Benito Mussolini, non è solo la città dell’immenso sviluppo urbanistico del dopoguerra, della modernità, come fosse un baluardo privo di storia e da successi recentissimi e postindustriali. Pomigliano vanta una storia di più di mille anni, esistente sicuramente in epoca precristiana, come si evince dagli scritti di Cicerone circa una disputa che vedeva coinvolto lo storico avversario di Capitone, Labeone. Ma è dall’epoca medioevale che iniziamo ad avere notizie un po’ più precise, e da quella moderna che i contorni si fanno chiari, grazie alle numerose tracce artistiche lasciate a noi, posteri, e risultanti ignote anche a molti abitanti della terra pomilia.

Per comprendere tale vetustità poetica e non meramente fiammettica, il nostro interesse deve partire dalle due più antiche chiese presenti sul territorio, quella di Santa Maria del Carmine e quella di San Felice in Pincis, protettore del paese e Santo forse più importante, affianco a San Antonio Abate, che leggenda vuole fondatore di Pomigliano, grazie alla sua epifania onirica durante la campagna di Pompeo Magno.

La prima sorse intorno al X secolo a sud-est della zona centrale, all’esterno delle mura che delimitavano il rione Spedale. Il suo nome originario era quello di Santa Croce, nome dovuto alla presenza di una antichissima croce bizantina posta alla sommità, andata sicuramente perduta da più di tre secoli. Essa ospitava i monaci seguaci di San Basilio Magno, i cosiddetti basiliani. Intorno al Cinquecento la chiesa, rimasta senza chierici regolari, fu dopo alterne vicende affidata ai carmelitani, da cui il recente nome, poi ai pisani, fedelissimi a Santa Afrodite, di cui conservarono le spoglie-nome questo, tra l’altro, diffusissimo sino agli anni ’70 in Pomigliano e misteriosissimo in quanto è una santa di cui conosciamo ben poco ma di cui la popolazione locale era devotissima-, poi agli agostiniani, ad inizio del secolo scorso, e negli anni ’90 divenne rettoria della chiesa di San Felice in Pincis.

La facciata è barocca, divisa in due ordini e mostra colonne aggettanti con nicchie collocate negli spazi tra esse. Sulla destra si innalza il campanile a pianta quadrata, strutturato su due livelli con cupola decorata da piastrelle policrome. L’ interno, armonico nella sua semplicità, è a navata unica con cappelle laterali. Interessante il dipinto della Madonna del Carmelo, raffigurata col mantello consueto di “Maria Stella Maris”, risalente al XVII secolo e in sostituzione ad un precedente dipinto del Diano e l’ancona linnea sempre della Madonna del Carmelo, con alla sinistra San Giovanni Battista ed alla destra San Francesco, risalente al XV secolo. Interessante anche il pregiato sepolcro, elegante e raffinato di marmi policromi, di tale Teresa Strambone, vissuta nel ‘600, appartenuta alla omonima famiglia di feudatari locali e talmente affezionata alla nostra cittadina da voler essere sepolta in loco.

Ancora più antica la Chiesa di San Felice in Pincis, almeno tenendo conto della sua fondazione. La stessa, infatti, era originariamente situata all’interno del già citato rione Spedale, dentro le mura, ed era la chiesa attorno alla quale si riunivano i pomiglianese e loro punto di riferimento. La prima testimonianza circa la sua esistenza risale al 1073, verso la fine del ‘500 la stessa fu spostata dalla sua ubicazione originaria e posta ove sorge tutt’ora, un tempo contitolata a San Paolino.

Il campanile antico risale al ‘400, a cuspide e fatto di tufo e pietra locale, di tipo a cannocchiale, presenta tre campane, costruite tra il Settecento e l’Ottocento. Solenne la cupola settecentesca, ricoperta di piastrelle maiolicate policrome, cupola a sesto rialzato dai colori dominanti, blu e giallo, con uno snello lanternino su cui svetta fiera una croce. La facciata è barocca, l’interno colmo di opere di un certo rilievo, ma molte datate Ottocento-Novecento, altre perdute. Tra tutte il dipinto con la Vergine delle Anime del Purgatorio, del 1851, olio su tela, sito nella cappella omonima, dipinto coevo della Madonna con San Gaetano, in onore al prete protettore delle vittime dell’usura, il dipinto di San Antonio da Padova inginocchiato, sempre ottocentesco come il dipinto della Annunciazione e quello della Sacra Famiglia, raffigurante Giuseppe Maria, Gesù ed anche i nonni Gioacchino ed Anna. Più interessante l’Adorazione dei Magi, del 1580, olio su tavola di pregiatissima fattura, probabilmente opera di un allievo del Silvestro Bruno. Interessante anche un dipinto di un allievo dell’ Abate Ciccio, come era uso chiamare Francesco Solimena, L’Immacolata Concezione, risalente al tardo Settecento. Degno di nota il fonte battesimale sulla sinistra, risalente almeno al XV secolo, vasca a battistero a forma ovale, contornata da tre angeli e con ai piedi uno stemma, raffigurante secondo i più un pomo, a mio avviso un melagrano.

Fatta questa debita e necessaria premessa fuggevole sull’humus artistico su cui poggia la cultura della “gente ospitale”, voglio soffermare la mia attenzione su quella che, credo, sia l’opera più interessante, pregevole, e degna di nota che la nostra cittadina possiede. Parlo della pala d’altare del fiammingo Dirk Hendricksz, meglio noto nei territori napoletani come Teodoro d’Errico, raffigurante l’Immacolata Concezione, risalente al 1586 (nella foto).

Lo stesso si trova presso la Congrega del Santissimo Sacramento e della Immacolata, sita sul lato destro della Chiesa di San Felice in Pincis. Antichissima costruzione, contemporanea alla Chiesa del Carmine nella sua attuale denominazione e posta inizialmente sotto la gestione dei Carmelitani stessi, era un luogo ove i laici si riunivano in preghiera, adorazione, e per compiere pratiche religiose sotto la guida, ovviamente, degli ecclesiastici.

Si accede alla stessa, oggi, attraverso la sacrestia e veniamo catapultati in un mondo tutto barocco, ornato riccamente e in tripudio etalagico, grazie alle ricche donazioni dei congregati. Tutto risale al tardo Settecento-inizio Ottocento; ricchissimo il pavimento cromatico maiolicato, elegantissime le dieci sedie per lato, pregiato il finissimo pulpito ligneo, ornata la cantoria, con foglie, riccioli, conchiglie, al cui centro gioisce estatica una maravigliosa forma floreale. L’altare è in uno stile che riprende il rococò, su tre gradini con angoli smussati e nel paliotto un padiglione di marmo chiarissimo che raffigura due confratelli oranti innanzi l’eucarestia. Ponendo lo sguardo all’in su, poi, il soffitto incannucciato è folgorante, illusorio lampo che troneggia sul cromatissimo affresco “Trionfo del Sacramento”, della prima metà del ‘700. Opera dell’avellinese Andrea d’Este, originario di Bagnoli Irpino, allievo anch’egli, come l’ignoto autore della Immacolata Concezione sita nella chiesa adiacente, dell’Abate Ciccio. Perfetta sintesi tra tardo barocco solimenista e classicità romana, l’affresco è diviso armonicamente in tre zone raffiguranti tre gruppi di figure.

Al centro del dipinto parte ogni cosa, meccanicamente e divinamente, l’ostensorio sorretto da due angeli erto tra le nuvole a dominio del globo, sopra, di conseguenza il Santissimo Sacramento con un benevolo Padre Creatore assiso sulle nubi e sormontato dalla colomba dello Spirito Santo, ancora più sopra l’immagine terrena di Cristo, che si eleva e si staglia in paradosso e non discende, che sublima la sua essenza mistica nell’elevazione umana del divino incarnato e non viceversa; uno squarcio di nuvole e cherubini, a sinistra, portanti la croce trionfante sugli inferi. Al di sotto un santo estasiato ammira tutto tale tripudio di cromatismo e gaudio, posto su uno degli scalini a braccia aperte, orante e sonante, in voce armoniosa, in compagnia di due angeli, l’uno brandente la palma, simbolo di pace.
Tornando all’altare con lo sguardo soffermiamoci ora sull’opera del d’Errico. Teodoro d’Errico è, senz’altro, il fiammingo che più ha dato alle città del napoletano ed al meridione di pittura fiamminga e più ha lasciato della stessa. Ma più anche si è contaminato, ponendo in essere una sincretia favolosa tra il verismo nordico il neocorreggismo dai cromatismi tenui e sfumati ed il barocco per approdare in creazioni pittoriche ampiamente ascetiche ed estatiche, tiepidamente magnificenti, soffuse di luce divina. Un connubio tra leziosismo e tripudio barocchesco che, forse, solo in Napoli poteva trovare la sua propria collocazione ideale.

L’opera è realizzata su supporto ligneo, parte superiore ornata da una mondatura mistilinea circondata da una sottile cornice dorata. All’esterno campeggia superbo un fregio intagliato sormontato da un cartiglio, ai lati due putti angelici dorati in cartapesta. Al centro del quadro c’è la figura della Madonna, graziosa, cortese, delicata, angelica, con viso nordico, testa reclinata alla sua destra, sguardo austero ma tenero, lunghi riccioli rossicci e vistosissima corona imperiale. Manto azzurro e veste porpora è attorniata dai suoi attributi nella parte mediana destra e sinistra, stella del mare, luce del mattino, sede della sapienza, rosa mistica, porta del cielo, tempio di dio, ed ogni attributo è impresso lapidario su papiri tenerelli che avvolgono o sovrastano i simboli relativi dando un fascino ed una concretezza all’etereo, mai pragmatico ma immanente nella raffigurazione che, da allegorica, diviene anche vivida, dal Verbo che si fa Cosa, dai titoli che, se solo pronunciati divengono vividi e reali manifestazioni del divino effluvio mariano della tutta bella.

Tra le varie figure quella che più colpisce, a mio parere, per affinità e splendore raffigurativo è nella parte mediana superiore destra, un volto mariano a forma di luna che è una vera e propria trasfigurazione che si sta realizzando nel momento stesso in cui è guardata, creando una sovrapposizione di immagini che mostrano l’amorfismo trasformativo in piena valenza armonica, senza stonature né dissonanze, luna e donna, cielo e terra, divina e umana. Sovrasta Dio a braccia spalancate che le dà fulgenza e splendore, gloria e regalità; muto e ascetico, ma loquente nel Verbo impresso ed emanante dalle se braccia aperte. Ai piedi della Mater Dei, concepita senza peccato, tre angeli che la sostengono in apparente sforzo, dominati dal suo splendore e dalla sua possenza più che dall’esile figura umana. A destra e sinistra due Santi, Francesco D’Assisi e Francesco da Paola, rappresentati l’umanità tutta ed i carismi maggiori attraverso i quali è possibile contemplare l’eterna musica divina, lo splendore mariano, l’immagine ed il volto di Dio. Francesco d’Assisi, nella vita attiva, a contatto con la natura tutta, in flora e fauna, operante, laborioso, elemosinante, che coglie l’anima di bestie, clorofille e cose.

Dall’altro San Francesco da Paola, con la barba da eremita, a rappresentare l’altra via attraverso cui l’uomo può salire al cielo, vivere in pienezza, quella di rinuncia, ascetismo, la vita contemplativa. Il giullare di Dio guarda la vergine negli occhi, con sguardo fiero e prostrato, quello di un lavoratore, quello di un respirante le glorie georgiche, quelle bucoliche, lo sguardo di un agricoltore, di un artigiano, di un operaio. L’eremita è sul lato opposto, guarda la vergine assorto più che intimidito, a mani giunte, con sguardo estatico, con l’umiltà dei sapienti e la gloria vera degli intellettuali che si arrestano innanzi alla maestà divina limitandosi a contemplare ciò che per la vita hanno ricercato.

Un’opera che dovrebbe essere di monito e ricordo ad un tempo per la gente pomilia, un’immagine che dovrebbe essere l’ideale di vita, come quello dei due santi, cui tutti dovremmo tendere, la vita della Pomigliano laboriosa da un lato, la vita della Pomigliano intellettuale dall’altro, nell’amore della bellezza femminea, della sapienza, due stili di vita che hanno in sé stessi la definizione di poesia, atto artigiano creativo, atto del pensiero manifesto e trasformativo, la vera poesia che, in fondo, è una dolce ascesa petrarchiana al Monte Ventoso più che una carnalissima lotta tra correnti e bassi istinti boccacceschi, del successo, della vanagloria, dell’essere liberi perché libertini o peggio liberi perché- aberrazione!- liberali, consumisti, produttori, sorbitori privati dell’eccesso tecnologico e della malformazione sociale cibernetica, cose che sanno bene le dantesche donne di bordello, e non di provincia, idee che hanno poco della sopportazione boccacciana tipica della famosa donzella di cui lo stesso ci racconta -per bocca di chi gioca a scacchi armato di sarcasmo, meno di squallore godereccio, con la morte, peste nera, sullo sfondo di un’apocalisse-, dedita al sacrificio e alla pazienza giobbiana, a sopportazioni e soprusi che non la sperdono, ma le danno la gradita e forse inaspettata ricompensa finale, vita ai figli creduti morti, fedeltà del marito creduto immondo.

Immagine carnale della divinità, allegoria della vita autentica perché goduta nel bello, nel voglio assoluto, nell’eterno sì alla vita stessa e non nel volere servile della inautenticità simbiotica e livellatrice. Un bellezza che è bontà, dunque, una vita che è gloria dell’uomo, ove non si barattano diritti mondani per diritti sociali, ma c’è la giusta temperanza tra i due, tutt’altro che deriva ideologica, magico sospiro del divino in noi e con noi. Del mondo cosa resta? La bellezza, per noi pomiglianesi l’Immacolata Concezione, opera di Dirk Hendricksz, detto Teodoro d’Errico, anno 1586.

Giovanni Di Rubba

Donazione sostieni il Gazzettino Vesuviano