Il volume, 67 pagine, è edito da Graphe.it ed è uscito sabato 26 settembre. E’ disponibile in tutte le librerie, nonchè online, al prezzo di 10 euro.
Laureato in Filosofia all’Università Orientale di Napoli, si è poi diplomato in Regia cinematografica nel 1992 presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e nel 1996 presso la New York Film Academy.
Nel 1997 ha realizzato in collaborazione con Roberta Calandra il documentario Una storia d’amore in quattro capitoli e mezzo sulla vita dello scrittore ebreo Brett Shapiro, che ha vinto il Premio Libero Bizzarri ed è stato distribuito dal quotidiano L’Unità. Del 1998 è il suo primo
Nel 2012 è uscito nelle sale il suo secondo film: Good As You. Tutti i colori dell’amore. Nel 2012 lavora per Mediaset dirigendo due episodi dello sceneggiato Il peccato e la vergogna 2.
Nel 2007 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie Dopo il dolore, Libero di scrivere edizioni.
La poesia di Mariano Lamberti
C’è un motivo concreto, personale, terragno che dà forza e verità alla poesia estatica e celeste di Mariano Lamberti, alla sua nostalgia dell’Essere, alla sua ispirazione alta e sapienziale: l’esperienza dolorosa, comune, di un lutto, della perdita improvvisa di un oggetto d’amore: «Ma dove mi vai a morire amore? / Dove, amore?». Qui si ricongiungono felicemente i due piani che scorrono parallelamente nel suo canzoniere: il piano metafisico, mistico o teosofico, e il piano esistenziale, autobiografico, degli affetti tangibili e del quotidiano. E così si chiarisce anche il titolo, La supplica di Brahma, che si richiama a una scena archetipica della tradizione indiana, quando Buddha, appena «illuminato» dopo la meditazione sotto il grande albero, è tentato di godersela in pace ritirandosi dal mondo, ma Brahma, creatore dell’universo, lo supplica di tornare dagli uomini e fargli dono della sua rivelazione, del dhamma (dottrina). Buddha, di fronte alla grande sofferenza dell’umanità, cede alla supplica preso da compassione. Come se la compassione non fosse propriamente naturale, originaria, al contrario dell’egoismo. Occorre infatti una supplica, una richiesta, uno «scatto» dell’immaginazione e del cuore. Eppure alla fine Buddha acconsente perché ha sentito risuonare dentro di sé da qualche parte, una nota, un frammento di quella sofferenza universale. La compassione nasce dalla comprensione, dalla consapevolezza unita a empatia, proprio come nel paradiso dantesco, dove Beatrice spiega al poeta che «Quinci si può veder come si fonda / l’esser beato ne l’atto che vede, / non in quel ch’ama, che poscia seconda»: la beatitudine proviene dalla visione di come sono le cose, da un atto intellettivo e mentale, mentre l’amore – pure fondamentale – ne è una conseguenza.
C’è una metafora che, diversamente declinata, circola in questi versi e ha una provenienza dal mondo vegetale: già nel prologo-epilogo spunta un bocciòlo, poi nel primo componimento l’attimo che «si apre come un fiore», poi ancora la bellezza del «momento fiorito» del dolore e gli «abbaglianti fiori d’impermanenza», mentre le mani piccole «aprono corolle di significati». Si direbbe l’annuncio di una stillante primavera del mondo, anche se sappiamo che anche la primavera dovrà morire, passerà via nella grande ruota di Shiva («questa primavera che muore»). . Tra le molte criptocitazioni, forse alcune involontarie, del canzoniere (Ginsberg: «Vedo le migliori menti della mia generazione spegnersi»), Baudelaire («Tu ipocrita lettore… mio sembiante») e Auden («le luci smontano», che richiama «Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte, /imballate la luna, smontate pure il sole»). Mi vengono in mente a questo proposito i versi di Ungaretti: «il mondo, l’umanità, l’intera vita/fioriti dalla parola».
Qui la parola poetica, ma anche su un diverso piano il «canto» della pratica buddhista, non creano il mondo ma possono farlo fiorire.
Certo Lamberti rischia molto, e in questo è ammirevole. Consapevole che quando scrive «la vita gocciola lontana» non ha pudore a dare voce all’Uno, all’Indicibile, al Numinoso, alla trascendenza immanente che si presenta fin dal prologo, «macchina da scrivere dell’universo», codice che ciascuno userà per scrivere la propria storia. Sa che la quadratura del cerchio resta un mistero incomprensibile all’uomo ma sa anche che il linguaggio poetico – polisemico, metaforico – gode di una libertà speciale, e dunque si azzarda a definire il «corpo fecondo» dell’Essere «né quadro, né tondo». Ho prima fatto riferimento alla pratica buddhista perché l’autore non è un orecchiante di esotismi modaioli ma da molti anni aderisce al movimento della Soka Gakkai e sperimenta quotidianamente il dhamma sia nello studio che nell’esercizio meditativo. C’è anzi un verso che più di ogni altro potrebbe indicare la particolare versione buddhista – antiascetica, radicalmente innovativa e ai limiti dell’eresia – della sua «scuola»: «torna a estinguere la sete del mondo dietro al mondo». Il distacco, l’annientamento del desiderio si raggiunge non attraverso la via convenzionale della rinuncia ma appagando il desiderio, fino a rivelarne la inconsistenza e intrinseca pochezza (quasi una cura omeopatica).
La «musica» di questi versi è traboccante, satura, a tratti congestionata: una esplosione di metafore originali (ad esempio: «la pelle nuda, vedova di carezze», «albero vedovo della calda stagione», i «sorrisi forzati dalle lacrime spente»), similitudini anche consunte («La vita è come un treno senza soste», «la città è un abito di dolore/ sporco come quel rossetto»), sinestesie («riposi taglienti»). Come se l’autore, di origine meridionale, volesse esorcizzare l’horror vacui con un eccesso di «arredo» figurale.
E a volte il dolore immedicabile può deformarne la voce, renderla appena stridula (l’azione che diventa «fragile unghia sull’intonaco dei parti prematuri», il «sogno senza orecchie»). Ma la sua lingua poetica non è selettiva né preziosa, intende nominare proprio tutto, della realtà in cui siamo immersi. A volte però la complicatezza e densità si scioglie per miracolo in versi di abbagliante semplicità: «Come stancare / la rabbia / di non averti più addosso / come un bottone / camicia / un giorno di pioggia?/», o «Mi strugge l’idea, seduto davanti al mare / che sono io quell’onda che ritorna uguale».
Accennavo al fatto che il desiderio di sperdersi, di decreare l’io, di fondersi con la Legge e accordarsi all’universo, nasce da uno strazio personale inconsolabile. Insisto su questo punto come chiave di lettura del canzoniere. In genere sono portato a diffidare della New Age confortevole e chic nata nel cuore dell’opulenza occidentale, dove la religiosità diventa solo un consumo tra gli altri, che non ci modifica e non ci costa nulla. Anche il principe Siddharta a un certo punto dovette farsi mendìco girovago dopo la fondamentale rivelazione sulla condizione umana. Ecco, questa genesi della «fede» di Mariano Lamberti innerva la sua struggente preghiera mistica. E la poesia è il tentativo – umile, ma convinto – di tradurre in un ritmo condiviso, riconoscibile, quel «ritmo del mondo» contenuto nello schiocco di dita, dove tutto e niente, nascita e morte, visibile e invisibile, attimo ed eternità misteriosamente coincidono.
Filippo La Porta