Giordano Bruno: primo grande giurista dell’Ordine di Nola

giordano bruno giurista nolaIl 14 aprile del 1994, fu ufficialmente istituito il Tribunale di Nola, a seguito della proposta di legge sottoscritta da 24 parlamentari. La legge 125/1992 istituì detto Tribunale, contestualmente all’approvazione della 126/1992 che istituì il Tribunale di Torre Annunziata.

La sede fu la storica “Reggia degli Orsini”, restaurata all’uopo, scelta dal Consiglio Comunale di Nola come sede provvisoria dell’ufficio giudiziario, in attesa del restauro della Caserma Principe Amedeo, che – in un futuro prossimo -dovrebbe diventare la “Cittadella Giudiziaria di Nola”.
Recentissima l’istituzione della Scuola di Formazione “Scuola Bruniana” che reca il nome del noto filosofo Giordano Bruno, che si definisce sempre, per orgoglio della propria terra e ancor più per dare radice al suo originalissimo e rivoluzionario pensiero, “ Nolano”. Motto della Scuola “Altro non son’io che foco ardente e ciò che mi avvicina mi infiamma” frase tratta dagli “Eroici Furori” del liberissimo pensatore.

Ed a pieno titolo il Giordano Bruno può considerarsi primo grande giurista del Foro di Nola, il suo pensiero, infatti, attaccato in sede inquisitoria, si sviluppa, modella e raggiunge il suo apice durante gli interrogatori del Sant’Uffizio, di Venezia prima e di Roma poi e la capacità argomentativa, la foga, la teatralità, la dialettica mista all’amore per le proprie idee ed alla fierezza di esse, nonché all’immensa considerazione di sé, che non elude l’umiltà del pensatore, doti che lo avrebbero condotto senz’altro ad una pena molto inferiore di quella terribile che le fu inferta, ma che egli, volontariamente, negli ultimi tempi del processo, rifiutò con sdegno eroico, novello Hermes, convinto Prometeo, al fine di non tradire sé ed il suo lavoro.
L’abilità argomentativa, la passione nella discussione, la vivissima intelligenza, la capacità deduttiva ed il carisma, affascinarono inquisitori ed alti prelati, teologi, commissari, procuratori e persino il Sommo Pontefice. Con maestria egli si difendeva e riusciva sempre a farlo non rinnegando ciò che sosteneva, mostrandosi non solo coerente, ma mostrando la coerenza del suo pensiero con le Sacre Scritture, con il pensiero dei Padri del Cristianesimo e con i dogmi della Chiesa Cattolica. Nonostante la lunghissima durata del processo , dal 1592 al 1600, egli non perse mai la lucidità, mai la concentrazione, mai cadde in contraddizione, mai si piegò, pur inchinandosi talora per strategia processuale, ma sempre con coerenza e dignità.

Ormai noto in tutta Europa e non solo in Italia, nel 1591 si recò a Venezia, presso il patrizio Mocenigo, allo scopo di insegnare allo stesso l’arte mnemonica, la cosiddetta mnemotecnica, di cui scrisse, con maggiore profondità, nelle “Ombre delle Idee”. Tuttavia il nobile era ben poco propenso ad apprendere, duro di comprendonio, ed entrò spesso in conflitto col maestro, dal temperamento non certo accomodante e più che mai vigoroso e, di sicuro, forte della coscienza di sé, poco propenso al rispetto dell’autorità sic et simpliciter.

Indispettito e deluso il Mocenigo lo denunziò all’Inquisizione veneta, egli doveva rispondere di ben 8 capi d’accusa: opinioni avverse alla Chiese ed ai suoi ministri, opinioni erronee sulla Trinità, divinità del Cristo, ed incarnazione del Verbo nonché sulla transustanziazione e sulla Santa Messa, strane idee circa l’esistenza di infiniti e molteplici mondi eterni, credenza nella metempsicosi, diletto in arti divinatorie e magiche, opinioni erronee sulla verginità di Maria.

In realtà sussistevano anche altri tre capi d’accusa, ma subito il Bruno se ne liberò, in particolare di non rispettare i Dottori della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti e di aver già subito processi dall’Inquisizione. Sull’ultimo punto fu facile dire che quello subito non era un processo avuto a Roma, ma in gioventù a Napoli, e per motivi veniali, ricordando che a Napoli non erano presenti gli uffici Inquisitori quindi la dichiarazione del Mocenigo cadde. Per quanto concerne i Dottori della Chiesa egli affermò che egli biasimò solo alcune proposizioni di San Girolamo, avendo massimo rispetto per Tommaso d’Aquino. Sul punto dei peccati non puniti citò un intero passo della sua opera “De infinito” in cui lodava massimamente le buone azioni a spregio delle cattive.

Iniziata l’escussione dei testi il capitano Matteo d’Avanzo fu subito ritenuto poco attendibile, gli altri due, Ciotti, Brictano, entrambi librai riferirono di aver sì sentito parlare il Bruno di filosofia e degli apostoli, della necessità di una religione universale, ma mai di tenere condotte devianti ed eterodosse.
Tutto a favore del Nolano, il quale fu successivamente ascoltato, riferendo le proprie origini, i propri studi ed i propri viaggi. Subito tenne un contegno che non poteva non dare una impressione favorevole ai giudici. Egli si mostrò abilmente sincero e con maestria ammetteva e deplorava teatralmente, spesso con le mani rivolte al cielo, alcuni crimines di minor rilievo, la blasfemia in realtà la configurò come semplici imprecazioni, dovute alla sua tempra ed alla sua educazione, avendo vissuto in terra napoletana e spesso nei bassi borghi di tutta Europa, data la sua condizione di frate fuggiasco e le sue ristrettezze economiche e, pentito amaramente, affermava che in tali condizioni e frequentando gente del volgo era facile cadere in imprecazioni ben poco eleganti. Sui punti più gravi, teologici, invece sostenne una tesi di fondo, che non abbandonerà mai, nemmanco a Roma, ossia che il suo ragionare è meramente filosofico e non intacca la sua fede Cattolica. Specificatamente mai affermò di aver insegnato dottrine eretiche, solo ammise, con spietata sincerità, che taluni suoi discorsi possono essere fraintesi dal volgo come quelli di Aristotele e Platone, sugli innumerevoli mondi egli ritenne che “natura ed ombra è vestigio della divinità” citando a tal proposito la Genesi, sulla incarnazione del Verbo e la Trinità, eluse la sua identificazione dello Spirito Santo con l’Anima del Mondo ed affermò che figlio è Intelletto e Spirito Amore del Padre, coerentemente col suo pensiero, ma ammise però di credere all’Unità dell’essenza Trinitaria, sull’umanità del Cristo parlò di filosofico quarto subsistente, ma rimettendosi in merito alla autorevolezza maggiore della Santa Madre Chiesa ed anzi, con “commosso calore” giudicato favorevolmente dai giudici, andrò oltre l’accusa affermando di aver dubitato della seconda persona ma di non averla mai disprezzata e di credere fermamente nel Cristo e nei suoi miracoli. Sulla transustanziazione egli fu ancor più abile, affermò di aver parlato in merito con calvinisti e luterani, ma di non aver condiviso il loro pensiero e di non aver mai assistito ai loro riti, sulla metempsicosi si rifece a Pitagora ed ammise l’esistenza del paradiso così come la possibilità dell’anima di trasmigrare ma secondo non solo un punto di vista filosofico ma in quanto l’alma è altro dal corpo e solo dopo il giudizio universale può ad esso ricongiungersi (sottilissima e magnifica argomentazione!). Sulla divinazione e sul fatto che possedesse libri proibiti e demoniaci egli sostenne che tali libri non sono adatti a tutti, ma i dotti debbono leggerli per curiosità scientifica e ancor di più per correggerne gli errori, come Tommaso d’Aquino, che pure leggeva opere alchemiche e, addirittura, ammise di essersi fatto fotocopiare a Padova il “De Sigillis” solo perché anche Alberto Magno lo aveva letto.
Diceva e concedeva sommessamente più di quanto dovuto, più di quanto chiesto, e riuscì anche a dimostrare l’inimicizia, confermata da altri, con il Mocenigo, suo accusatore, il che invalidava di fatto le accuse, mosse da rancore.
Infine l’apoteosi della teatralità, inginocchiato, mani al cielo, costernato chiese perdono per l’erronea interpretazione di ciò che disse e scrisse, e nemmeno un tranello teso dai giudici lo ingannò. Questi, poiché l’accusatore principale, il Mocenigo, era di fatto inattendibile, dissero, mentendo, che avevano sentito la deposizione di un altro accusatore. Il Bruno affermò convinto e senza esitare che nessun altro poteva incriminarlo se non il suo nemico accusatore.
Giordano Bruno ne uscì vincente a tutti gli effetti.

Tuttavia un decreto generale della Congregazione del Sant’Uffizio del 1581 stabilì che tutte le Inquisizioni locali mandassero una relazione sintetica a Roma prima di emettere la sentenza. Nel caso di Bruno, poiché i giudici erano consci che si era parlato di argomenti teologici tutt’altro che irrilevanti, si mandò non solo un estratto ma l’intera copia degli atti. Ora, gelosa della propria autonomia, raramente l’Inquisizione veneta concedeva l’estradizione, ma il caso in esame doveva suscitare un interesse di non poco conto a Roma, che conosceva bene il filosofo, ed addirittura il Nunzio Apostolico in persona si scomodò per chiederne l’estradizione che fu, quindi, concessa.

Intanto, emerge la deposizione di un nuovo teste, il cappuccino Celestino da Verona, eretico che sarà bruciato anch’egli a Campo dei Fiori, un anno prima di Giordano Bruno, e che era stato compagno di cella del Nolano. Quest’ultimo propose ben 20 capi d’accusa, oltre quelli del Mocenigo, tra gli altri, i più rilevanti, l’inesistenza dell’Inferno e la salvezza di tutte le anime, che Mosè fu un mago astutissimo, che i Profeti erano astuti e bugiardi, che il breviario è un libro per asini pieno di asinerie intollerabili, che Cristo peccò e dubitò della volontà del Padre, che non è utile anzi dannoso il culto delle reliquie dei Santi e che quest’ultimi non possono e non sanno intercedere con Dio, infine di aver istituito la setta dei “Bruniani”.
Si rimise in moto la macchina giudiziaria ed emersero nuovi testi, che furono ascoltati, tra questi Francesco Vaia, Francesco Graziano, Matteo de Silvestris, libraio colto ed esperto di latino, che traduceva frequentemente. Ciascuno confermò alcune o buona parte delle accuse di Celestino.

A questo punto il processo proseguì a Roma con l’ascolto dell’accusato. Questi utilizzò una tattica difensiva simile a quella utilizzata a Venezia. Negare cose lievi o affermarsene intristito, difendere il corpus del suo pensiero con riferimenti alle Scritture, ai Dottori della Chiesa e trincerandosi, sempre, nell’ambito della speculazione meramente filosofica.
Negò di voler fuggire una volta scarcerato in Germania, accusa che pure gli era stata mossa da un teste, e riguardo alla setta affermò che aveva detto per vantarsene non perché realmente esistesse, cosa che conciliava bene col carattere del Nolano. Riguardo al fatto che Mosè fosse stato un mago egli sostenne che ciò è riportato nella Bibbia stessa, in quanto Mosè fu educato secondo il metodo d’istruzione egizio da egiziani, e quindi anche e soprattutto alla magia. Riguardo le bestemmie, riprese il tema di aver vissuto nei bassi borghi aggiungendo con fine ironia che le ingiurie erano rivolte, ovviamente, non ai santi ma ai suoi interlocutori. Collegandosi a ciò affermò che il fatto di aver ritenuto Caino migliore di Abele perché non si cibava di carne era una burla detta “festivamente parlando” e che era evidente ictu oculi che se deprecabile era uccidere animali ancor più deprecabile sarebbe stato uccidere altri uomini. Sulla metempsicosi premette circa la natura filosofica di tale

speculazione e che il corpo era caduco e l’alma eterna e trasmigrevole solo nel dominio naturale, de facto. Sui Santi egli negò che non potessero intercedere con Dio, a riprova di ciò affermò che tutte le religioni naturali, che amava, lo ammettevano. Sulle asinerie del breviario ammise che alcuni erano mal tradotti, ricopiati e confusi. Sulla stregoneria ripetette ciò che disse a Venezia, ossia che possedeva libri divinatori solo per studiarne e capirne gli errori e la giusta interpretazione, come fecero Tommaso d’Aquino ed Alberto Magno. Infine, sulla infinità dei mondi, argomento poco trattato a Venezia, sostenne la tesi della speculazione filosofica citando la Genesi e ritenendo gli stessi caduchi sebbene infiniti.

A questo punto si avviò il processo ripetitivo. Questa era una fase non necessaria del procedimento, l’accusato poteva scegliere se avvalersene o meno, e consisteva nella sua possibilità di presentare memorie contro le affermazioni dei testi ed accusatori e reinterrogarli. Tuttavia era un’arma a doppio taglio, che poteva andare a tutto vantaggio del Fisco, che aveva la possibilità di ritornare su certi punti e convalidarli, se prima erano stati superati o non dimostrati. Bruno se ne avvalse e rifiutò la difesa d’ufficio dell’avvocato Marcello Filonardi, difendendosi da solo.

I testi parlarono, deposero, e fu dato un tempo al Bruno per rispondere e preparare le memorie di replica “cosiddette ripetizioni”. Intanto lo stesso fu interrogato su bisogni materiali, gli fu data una mantella ed un capello dato il freddo pungente. Ad ogni modo dal processo ripetitivo erano emersi nuovi capi d’accusa ed il Mocenigo consegnò all’Uffizio anche copia del libro Cantus Circaeus in cui affermò che Bruno offendeva il Santo Padre satiricamente. Il Nolano si riconobbe autore ma negò di riferirsi mai al Papa ed escluse la lettura satirica, ritenendola forzata. Rispose, poi, su alcune repliche, riguardo la verginità di Maria ritenne di aver sempre sostenuto che Cristo non sia stato concepito in modo “fisicamente possibile” e che però la nascita è condizione biologicamente incompatibile con la verginità, aggiungendo, però, che ciò era detto per speculazione biologica e non, come riferito, per gusto depravato o per turbare le coscienze.
Ad ogni modo al Padre Commissario non sfuggi la duttilità caratteriale di Bruno, e la sua capacità di filosofo, ed alla luce delle diverse opere da egli scritte, si bloccò di nuovo il processo, per la censura dei libri.
Ci volle più di un anno per reperire i volumi, studiarono assieme al Padre Commissario, padre Bartolomeo de Miranda, maestro del Sacro Palazzo, padre Isaresi, vicario e procuratore dell’Ordine domenicano, Anselmo Dandini, protonotario e referendario apostolico, padre Maestro Guerra e fra Pietro Giovanni Saragozza. L’analisi dei libri fu importante, anche perché i testi avevano quasi tutti rapporti di inimicizia con l’accusato. Furono sottoposte al Bruno diverse censure, cui con la solita abilità e con grande successo seppe rispondere.

La prima riguarda il nocciolo duro dell’ontica bruniana, le due cause e principi eterni, l’anima del mondo e la materia prima, soprattutto, dunque, eterodossa era la tesi circa l’eternità dell’universo ma Bruno rispose affermando che i due principi sono eterni a parte post ma non a parte ante, in quanto creati da Dio. Riguardo all’infinità dell’universo e dei mondi, tema toccato poco in fase dibattimentale e pochissimo nel processo veneziano, anche qui però l’argomentazione fu la medesima, ammissione della caducità, sostegno della esistenza. Sulla metempsicosi rispose che se i bruti tornavano all’universalità dello spirito, gli uomini, per la loro natura, erano come un corso d’acqua che si immette in uno più vasto, ciò che viene da Dio torna a Dio. Sulla eternità delle cose ritenne eterne spirito, acqua e luce, con ciò mostrando ampia conoscenza dell’ebraico (in principio lo spirito di Dio aleggiava sulle acque), e stessa abilità nel sostenere un altro punto di censura, quello circa l’identità dello Spirito Santo con l’Anima del Mondo utilizzando il termine covare e rifacendosi a Mosè che disse “l’intelletto uman covava sulle acque” allo stesso modo dello “spirito di Dio covava sulle acque”, in ebraico “merefeth” . Circa il sostenere gli astri come angeli, fu facile giustificarsi adducendo la poeticità e il barocchismo immaginoso della frase. Circa il considerare la Terra essere animato Bruno citò la Genesi circa l’ordine divino “che la terra produca ogni sorta di anima vivente”. Altra censura, quella del definire l’anima nocchiero del corpo e non sua forma, lo stesso si giustificò affermando negativamente che la definizione di anima non veniva riportata nelle Sacre Scritture né dai Padri della Chiesa come “forma”. Infine dovette rispondere circa la sua credenza nelle popolazioni preadamitiche, ossia che solo gli ebrei derivavano da Adamo ed Eva, gli altri da Ennoc e Leviathan, teoria che trova le sue radici in alcune credenze di certi rabbini.
Il processo si avviava alla conclusione, salvo una nuova pausa dovuta alla partenza del Pontefice ma può riassumersi in tre corpi d’accusa. Il primo sulla vita di Bruno, libertina, dalla lingua tagliente, imprecatrice, che cade facilmente per stessa ammissione dell’accusato pentito, l’altra sulla Cristologia bruniana e le sue concezioni circa la Santa Vergine e la Trinità, che tuttavia sono caduchi perché basati sulla sola deposizione dei testi che comunque non avevano confermato le ipotesi più severe del Mocenigo, infine il punto dolente, le sue concezioni sull’universo e i mondi, la trasmigrazione e l’ultima, riguardo Caino e Abele, definito “carnefice di animali”.

A questo punto, data la difficoltà e la lungaggine del processo, interviene il noto cardinale Bellarmino, che decise, per abbreviare i tempi e sanare le contese che sorgevano, di sottoporre al Bruno tutti i capi d’accusa più rilevanti, stava a lui poi se avvalorarli o abiurarli. Si apre uno scenario interessante, ovemai l’accusato avesse abiurato avrebbe subito una detenzione breve e sarebbe stato poi probabilmente reintegrato addirittura nell’ordine e messo in libertà. Gli furono presentate otto proposizioni, e sei giorni di tempo per decidere se abiurare o meno, strategicamente Bruno rispose di abiurare solo se la Chiesa o il Pontefice o lo Spirito Santo le ritenessero eretiche. Ecco qui che Bruno non vuole vincere, ma stravincere, non solo essere libero e vivo, ma libero a tal punto da non rinunciare totalmente alle sue idee, mostrandosi non solo sicuro di sé ma vero e coerente sino all’ultimo. Il suo obbiettivo è sì abiurare ma che le sue tesi siano ritenute invalide ex nunc e non pre dottrina costante della Chiesa, ossia ex tunc. Insomma il Bruno vuole restare Cattolico ma vuole riformare il cattolicesimo. Forte dell’esperienze maturata in Europa, terra di luterani e calvinisti, forte delle sue conoscenze storiche, ermetiche, pagane e magiche ha un intento: vuole a tutto e per tutto cambiare e rimodernare la chiesa di Roma, non crearne un’altra. Probabilmente dalla prigionia e dal confronto, dallo studio dell’Aquinate, dei Padri della Chiesa, delle Sacre Scritture, dall’insoddisfazione e delusione per le “nuove” religioni europee riformate comprende che la vera riforma, la vera religione universale, può compiersi solo in seno a Roma.
Dopo un nuovo ultimatum di quaranta giorni, il 15 febbraio Bruno, nel corso del suo ventesimo interrogatorio, si dichiara disposto ad abiurare totalmente. Mentre si procede a preparare il testo della condanna, Bruno avanza dei dubbi in un documento su due dei punti da abiurare, gli viene ingiunto un nuovo conclusivo ultimatum : il filosofo si dichiara nuovamente disposto all’abiura ma improvvisamente torna sui suoi passi e scrive addirittura una lettera al Pontefice Clemente VIII pochi giorni dopo. Il generale Beccaria ed il procuratore Isaresi gli fanno visita in cella per convincerlo. Nulla da fare! Resta eretico ed impenitente, ascolta la sentenza in ginocchio ed umilmente, ma si mostra poi amareggiato e tradito, coerente sino all’ultimo viene arso vivo in Campo dei Fiori all’alba del 17 febbraio, imprecando deluso alla sua maniera, tanto che gli viene applicata una morsa in bocca.

Il primo giurista del foro nolano ha sostenuto otto anni di processo restando sempre fedele alle proprie tesi, difendendosi con maestria e mai con arrendevole strategia, sempre fiero ed umile ad un tempo, sempre fedele al Cattolicesimo, con l’intento, forse ingenuo ma che certo un uomo come il Nolano poteva contribuire a fare, di perfezionarlo. La sua fine è stata la sua ostinazione e la sua coerenza. Maestro immenso nel sostenere le sue tesi argomentando sempre con riferimento rigoroso alla Legge, quella delle Sacre Scritture, quella dei Dottori e dei Padri della Chiesa, quella di Aristotele e Platone, non forzando le Scritture per sostenere le proprie tesi ma sussumendole amabilmente senza fossilizzarsi e rendendo la religione e la legge corpo vivente, immutevole ma plasmabile e migliorabile. Anche l’argomentazione è emblema del suo pensiero e rappresenta un modus operandi, una forma mentis, che ogni giurista deve applicare.
Il Giordano Bruno, “Nolano” è vanto dell’Ordine di Nola, oltre che esempio ammirevole per chi ne fa parte, uomo che concilia e rende non incompatibili sofismi e coerenze, strategie processuali e sostegno delle tesi, crede in ciò che fa e lo fa bene, simbolo della napoletanità e della cultura nostrana, intraprendente e umile, sincero e spontaneo, intelligentissimo, intuitivo, fedele senza essere servile alla legge e rispettoso dell’autorità solo della sapienza e degli uomini sapienti, ma aperto alla discussione, a sviscerarne il pensiero, interpretarlo, reinventarlo, farlo proprio ed innovarlo. Bruno è il giurista che non solo vince ma convince.

Giovanni Di Rubba

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