A distanza di cinque giorni dall’agguato dello scorso 27 novembre notte, i punti interrogativi restano ancora tanti.
Proviamo qui ad indicarne qualcuno: chi ha sparato contro Ciro Moccia? Si tratta di un episodio con finalità estorsive di matrice camorristica? L’obiettivo era quello di intimidire, avvertire o punire? Se si tratta di camorra, i mandanti dell’agguato sono criminali locali o, considerate le numerose attività commerciali dei Moccia, provengono addirittura da clan esterni al territorio?
Tanti dubbi da risolvere ma non mancano anche alcune certezze. La prima, la più importante, è che Ciro Moccia, ferito ad un polpaccio da uno dei numerosi proiettili sparati contro la sua auto, è stato dimesso già ieri e con un commento ha prontamente tranquillizzato tutti sul suo stato di salute: «Ora é tempo di riprendere l’impegno quotidiano. In tanti mi sono stati vicini in questi giorni».
L’altra certezza, invece, proviene dalle parole del Prefetto di Napoli che, almeno parzialmente, rispondono a qualcuno dei quesiti indicati sopra. Intervistata da “Il Mattino”, il Prefetto Gerarda Pantalone è infatti intervenuta anche sulla vicenda Moccia: «Quanto allo scenario, ci sono indagini in corso. Le modalità dell’agguato testimoniano la volontà di rappresentare un atto di forza ben visibile. Il livello dell’aggressione è stato altissimo. Un raid da professionisti, gente che sa sparare senza uccidere, che voleva dare un messaggio molto evidente».
Dunque, secondo questa fonte autorevole, che tra l’altro conferma le ipotesi delle prime ore, gli spari sono stati effettivamente indirizzati verso il basso, con volontà di ferire e non di uccidere. Un’azione condotta da criminali “professionisti”. Una conclusione questa, che se confermata dalle indagini, indicherebbe il ritorno di una nuova escalation criminale su un territorio per anni succube dell’influenza di clan potenti come quello dei D’Alessandro. D’altronde, non c’è da meravigliarsi -e chi lo fa o è in mala fede o distratto- perché è sufficiente leggere l’ultima relazione della direzione distrettuale antimafia per comprendere come sul territorio stabiese e dei Monti Lattari, gli equilibri criminali, siano ancora oggi ben definiti e definibili: “A Castellammare di Stabia è presente il clan D’Alessandro, con proiezioni in diverse regioni della Penisola sorrentina. A Gragnano e Pimonte opera il clan Di Martino, legato ai D’Alessandro. A Casola e Lettere è presente il clan Cuomo. Alcuni riferimenti ad esplosioni di arma da fuoco fanno ipotizzare una situazione di fibrillazione degli equilibri criminali, per motivi legati, prevalentemente, al controllo del traffico di stupefacenti”. Il dato, inconfutabile, è che la presenza camorristica sul territorio resta ancora molto forte e, oltre al citato traffico – e produzione- di stupefacenti, l’altra fonte di guadagno sembrerebbe essere il racket imposto alle attività commerciali, a cominciare proprio dai grossi imprenditori, colpendo poi, in alcuni periodi (soprattutto festivi), tutte le altre categorie del commercio locale.
Il “pizzo” non sarebbe imposto solo con i metodi tradizionali del “do ut des” camorristico (soldi in cambio di protezione) ma anche con metodi più subdoli come quello di imporre l’utilizzo di un determinato prodotto (l’esempio tipico, accertato da numerose indagini, è il caffè per i bar) ovvero l’indicazione, vincolante, di assumere persone vicine ai clan (proprio quest’ultimo sistema sarebbe al vaglio delle indagini del caso Moccia che, a quanto pare, non avrebbe voluto assumere taluni personaggi). Il racket (senza dimenticare il grande business del controllo dei centri di calcio scommesse) oltre ad una fonte economica resta soprattutto uno strumento per controllare le persone ed il territorio. Gli esempi potrebbero essere molteplici, come la vicenda che solo qualche mese fa ha visto protagonisti alcuni esponenti del clan Gentile, egemone nella zona di Agerola, che secondo le indagini (in questi giorni è in corso la fase dibattimentale del processo) imponevano, a prezzi elevati e fuori mercato, la legna alle pizzerie della zona.
A Castellammare nell’estate del 2014, nel giro di pochi giorni, prima fu ferito un commerciante all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli e poi furono sparati alcuni colpi d’arma da fuoco contro l’abitazione di un imprenditore edile: episodi entrambi ricollegati al fenomeno del racket. Un territorio che dunque resta in balia della malavita, negli ultimi anni diventata forse meno “organizzata” ma più ramificata. A denunciare il pizzo sono in pochi, anzi pochissimi. Le stesse associazioni di categoria negano la presenza del fenomeno, mentre diverse inchieste (e le dichiarazioni di testimoni di giustizia) ne hanno riconosciuto la presenza diffusa. A questo si aggiunge l’assenza di un’associazione antiracket attiva sul territorio e l’assenza di una rete di associazioni realmente indirizzata a contrastare la camorra e fenomeni affini, a partire da iniziative che informino la comunità (si segnala la recentissima nascita di un presidio “Libera” territoriale). Andando indietro negli anni si ricorda l’omicidio dell’imprenditore alimentare Michele Cavaliere (riconosciuta vittima innocente di camorra), ammazzato alla fine degli anni 90 perché si oppose di pagare il pizzo al clan Carfora di Pimonte. Gli episodi di camorra da raccontare, anche recenti, quindi sarebbero molti, allo stesso tempo, tuttavia, ritornando al caso Moccia, prima della conclusione delle indagini e di informazioni più chiare, parlare di camorra, rispetto al fatto in questione, sarebbe troppo avventato.
Quello stabiese è in effetti un territorio talmente articolato che a volte le situazioni più complesse sono le più facili da analizzare, mentre quelle dalla soluzione apparentemente più semplice (come in questo caso) si dimostrano in seguito le meno scontate (si può citare ad esempio il caso dell’omicidio del consigliere comunale Tommasino, il cui movente sostanziale ad oggi resta, in parte, ancora un mistero). Al momento, un’altra certezza è quella che la vicenda resta nelle mani delle forze dell’ordine, come dichiarato dallo stesso Ciro Moccia: «Ringrazio anche le forze dell’ordine per quanto stanno facendo, sperando si possa chiarire tutto al più presto e auspicando che, nel frattempo, si spengano i riflettori per poter permettere alla nostra famiglia e ai nostri collaboratori di poter riprendere il nostro lavoro in totale serenità, sapendo di poter contare sui tanti che ci sono stati vicini dal primo momento». Ed ecco l’ultima “certezza”, suggerita proprio dalle parole di Moccia che ha provveduto a ringraziare le tante persone che hanno offerto solidarietà fin dal primo momento. Sono molte le persone, anche cittadini che non conoscevano il Moccia di persona, che in questi giorni di ricovero sono andati a salutarlo in ospedale. Numerosi sono stati i messaggi e le dichiarazioni di vicinanza provenienti da tutta Italia. Sulla vicenda è esploso un vero e proprio caso mediatico, con articoli sulle testate nazionali. Molta anche l’enfasi mediatica che ha descritto Moccia come “il re della pasta” prima e poi parlando di “sfida contro la camorra” che sarebbe stata intrapresa dallo stesso. Posizioni smentite dallo stesso Moccia: «Ho letto, in questi giorni, definizioni e commenti giornalistici (riferiti alla mia persona) nei quali non mi riconosco. Non sono il re della pasta ma un semplice artigiano che, come tanti altri imprenditori, la mattina scende a lavorare ed ha provato, con “enormi sacrifici”, ad esportare in positivo il marchio della pasta di Gragnano».
A poche ore dall’agguato sono stati tantissimi i commenti di indignazione scritti sui social, in particolare sui gruppi di riferimento per la comunità web gragnanese. All’indomani del fatto, tra sabato e domenica, in tanti hanno proposto “fiaccolate” o manifestazioni per esplicitare, pubblicamente, l’indignazione collettiva che ad oggi, 2 dicembre, tarda ad arrivare e che forse non arriverà mai. Alcune associazioni cittadine, nella serata di lunedi scorso, hanno provato a decidere sul da farsi. Lo hanno fatto in una riunione, tenutasi presso la sede della Pro Loco, che ha visto un’esigua presenza di pochi volenterosi – i soliti pochi – e l’assenza assordante, quanto incoerente, delle voci più roboanti nel mondo fittizio dei social media. I pochi presenti hanno quindi deciso di rinviare a data da destinarsi qualsiasi tipo di manifestazione, scrivendo una lettera di solidarietà a Ciro Moccia. Il motivo ufficiale è quello di aspettare tempi più maturi, considerando la pressione a cui è stata sottoposta l’intera famiglia Moccia. La motivazione ufficiosa, forse, è invece quella, come scrivevamo sopra, che in pochi hanno effettivamente partecipato alla riunione. Da una parte forse è meglio così; forse è meglio che la comunità non prenda posizione fino alla conclusione delle indagini. Molti però la pensano diversamente, forse una reazione doveva esserci ed il fatto che non ci sia stata aumenta esponenzialmente i punti interrogativi.
A dubbi di mera cronaca, elencati sopra, se ne aggiungono infatti altri: e se invece non fosse questa la soluzione migliore? E se invece di lasciare l’iniziativa ai social e ai soliti pochi – e volenterosi – cittadini, dovessero essere le istituzioni locali (a partire dalla Giunta e dal Consiglio comunale) a indirizzare una reazione collettiva? E’ possibile che tante e vuote lettere da tastiera o smartphone siano ritenute più efficaci di una manifestazione pubblica fatta di persone in carne e ossa e parole vere? Perché in tanti si sono espressi sui social ed in pochi si sono invece “esposti” fisicamente e pubblicamente? Se Ciro Moccia è la persona “coraggiosa”, “buona”, “che ha creato posti di lavoro ed ha fatto del bene per il territorio”, così come conosciuta e descritta da tutti, perché non si è trovata la coerenza e l’unione per scendere in piazza?