Il Natale, giorno in cui la Cristianità tutta celebra la nascita del Cristo, redentore dell’umanità dal peccato, coincide non a caso, o meglio fu fatta coincidere, con la celebrazione del Sol Invictus, ossia del sole invincibile, che con la sua potenza arde gli spiriti, pieno tutto di misericordia dona il fuoco ai mortali, per misericordia e non per furto come avvenne Prometeo, ricorda a tutti noi che la fiamma della salvezza non è conquistabile con le nostre sole forze, ma con la sapienza, e per giungere alla sapienza è necessaria l’umiltà, diveniamo fiamme del divino solo se siamo consci della nostra pochezza innanzi al divino stesso.
Ed il Natale è redenzione quindi, redenzione dal peccato, dalla sofferenza, dal tempo umano, è il saper trovare la Rosa nella Croce, la luce nell’esistenza tenebrosa e asservirsi a quella luce senza perdere il bagaglio della nostra oscurità, ma purificarlo con la volta del cielo, col variopinto zigzagare dei risvolti cromatici.
In un precedente articolo, del 29 settembre, analizzai sommariamente e da un punto di vista quasi “teologico” il penultimo album di Lucio Battisti, “Cosa Succederà alla Ragazza” (C.S.A.R.), notando come in quel disco l’interprete e musicista, assieme all’autore, abbiano ridato una vera e propria dignità dottrinale alla donna, per secoli relegata ai margini di ogni pensiero e sempre inibita all’accesso alla cultura. D’obbligo, a Nostro avviso, è non tacere l’ultimo album di Battisti-Panella, del 1994, testamento spirituale, artistico e filosofico del massimo musicista italiano.
L’album è un capolavoro assoluto, letto come gli altri “bianchi” ad intarsio, con canoni interpretativi complessi e molteplici, letterari, allegorici, morali, teleologici. Si presta a diverse letture, quindi, potrebbero sembrare a primo acchito degli arabeggi dadaisti tardo liceali di una coppia di amanti tra libri e viaggi sognati e vissuti, talora dei meri esercizi di stile, talaltra dei residuati eraclitei ed orfici ad un tempo, qualcuno ci ha visto persino una satira al precedente paroliere di Lucio, Mogol, individuato a suon di beffa come il terzino roccioso dell’idealismo.
E sì, perché, è bello dirlo a discorso iniziato, l’album in questione ha un titolo impegnativo “Hegel”. Nessuna di queste interpretazioni esposte sembra sbagliata, forse perché nessuna è esatta o, semplicemente, come spesso è costume dei critici distratti censire, perché non vi è un vero senso, ma basta farsi cullare dalla musica. Tuttavia non si può e non si deve, la musica è lì, posta proprio dove deve essere, non a caso, e le parole sono proprio lì, ove la musica se le aspetta, e nemmanco questo è un caso, ed ancora, il suono delle parole è la musica di Lucio, anche negli intervalli e nei silenzi, di ciò che manca, “e se ci fosse è come non avesse nome”, nome no, ma etimo sì, suono sì, etimo sonoro d’assoluto, certamente.
Ed è così, miscelando i sensi, che voglio leggere l’album, come l’ultimo dono di Battisti, un dono natalizio che ci pone nel mezzo di una essenza, che ci definisce proprio perché ci disciplina, attraverso canoni e precetti in noi insiti ed intrinsechi nelle parole, che non sono solo quelle del testo, ma le nostre e che attraverso questi testi e questa musica impariamo maieuticamente a capire. E Lucio, nel definirci, o meglio nel definire l’arte e per transitorietà noi, senza mai prendersi sul serio ma ragionando seriamente, ci illumina, ci riempie di magia, ascoltando la musica vibrante delle sfere celesti la sua magia ci rende maghi, maghi che col Natale si preparano a consegnare i loro tesori, i loro talenti, umilmente innanzi all’Epifania del Cristo, vero Re del cielo, vero Re della Terra, vero cosmocrate.
L’attacco, il primo pezzo, sembra ricollegarsi a C.S.A.R., al “Cosa Farà di Nuovo”, erano le quattro meno un quarto della notte, ora a lei tutto è chiaro. Alla donna sono chiare le ragioni della sua lode, della lode che da sempre i poeti, gli aedi, tessono, lode alle iridi, ai padiglioni auricolari, tutto rinchiuso in una stanza, vale a dire in una strofa. E a lei, beh certo le fa piacere, lei in tali lodi, da Fedeli d’amore, entra volentieri, perché c’è tutto, e tutto è esagerato, tutto è “ad oltranza”, “comportamenti, reazioni, presenze ed abbandoni”, splendido chiasmo d’assonanza! Lei vuole continuare lì a leggere, lei donna, vuole essere ancora al centro dell’arte, ma c’è una amarezza “è tardi”, è tardi perché forse la donna, oggi, si sta svestendo della sua bellezza in cambio di una libertà che non è vera libertà ma baratto, barattare la perfezione coll’uguaglianza formale, non è libertà, l’uguaglianza sostanziale è per e nella donna, passare da ragazza a donna ma nell’emancipazione non perdere la grazia, non mascolinizzarsi.
E dentro di lei c’è tale conflitto, tale “contrasto di forze contrastanti”, ancora un po’, voglio restare al centro del pensiero, “Almeno l’Inizio”, almeno l’inizio voglio restare al centro del pensiero umano, ed almeno per un altro po’ voglio, nel diventare pensatrice non cessare di essere l’oggetto del pensiero, nel ricercare non cessare di essere ciò che l’uomo cerca, l’idea, il femmineo etimo del sapere. Almeno un altro po’, non cedere la grazia in cambio della godereccia mondanità. Si prosegue col secondo pezzo “Hegel”, pezzo della memoria, una certa Hegel Tubinga che si prende il nome a caso dai libri, come a copiare di nascosto o a soffiare sul fuoco, alimentando l’arte, che è accrescimento e citazione, l’artefice, il plasmatore, non crea dal nulla, ma plasma e rende propria, aggiungendo ed accrescendo, la sua opera.
E la morte, l’arte sopravvive ad essa, “quando tutto è perduto non resta che la cenere e l’amore”, la materia si dissolve ma la fiamma viva dell’amore è l’arte, l’araba fenice arde e risorge dalle ceneri del corpo, l’amore è arte, l’arte un gesto d’amore e l’amore stesso la vera molla che guida gli umani, gli essenti e la Natura tutta. E poi non è importante chi sia “il governato e chi il governatore”, chi comanda e chi obbedisce, chi il servo e chi il padrone, come il Natale ci insegna il padrone è nulla senza il servo e chi serve si innalza, “o risplendente sole cosa mai saresti se non ci fossi io qui giù su cui risplendere”, fa dire Friedrich a Zarathustra, cosa sarebbe infatti la potenza della Natura se non ci fosse chi la canti. Ecco il vero potere, l’arte, che scioglie i lacci dell’oblio, ed è amore, è amore immenso per ciò che si canta e diviene immortale. Il Cristo, nato povero e morto povero e maledetto, ha donato con un gesto estremo d’amore l’immortalità al genere umano. Cristo è il sommo artista, il sommo servo, colui che ha plasmato il mondo col suono della voce, con la sua musica che è il Verbo, che ha reso l’uomo sua simiglianza perché artista e sua immagine perché stupendo, dolce, bellissimo, misericordioso. Il punto è l’amore ardente “il punto era l’incendio”.
Ma “l’arte è una parte”, la molla della vita ma è la vita che deve divenire l’opera e colmare l’altra parte. Si prosegue con “Tubinga”, in cui si neutralizza il senso del tempo, la contemporaneità, si scopre che la bellezza, oggetto ricercato dall’amore nell’atto artistico, così come nelle scienze e così come nella nostra stessa vita, rifugge i cambiamenti fugaci che nulla mutano, la vera bellezza è una continua riscoperta alimentata dalla fiamma d’amore, un mutamento statico e per ciò stesso rivoluzionario, come da titolo del quarto pezzo è “La Bellezza Riunita”, la bellezza che va al di là del corpo, non imbrunisce, ma parte dal corpo per giungere all’anima attraverso lo spirito, così come l’immago della bellezza vista dal poeta che è amore parte dall’alma per manifestarsi lucente nel corpo perfettissimo nella sua imperfezione per tramite e grazia imposta dallo spirito divenendo ancora amore.
Il tempo umiliato da un bacio, da una “bocca ponente”. “La Moda nel Respiro” e “Stanze come Questa” esprimono un concetto analogo, la moda si rinnova, per farci scordare le nostre nudità imperfette, ma l’amore si innamora proprio della imperfezione, e chi tenta di occultare ciò occulta la sua alma stessa, l’amore va al di là della superficialità e punta diretto all’apparenza, alla dolcissima apparenza che è essa stessa specchio del nostro essere. In “Estetica” il concetto è portato all’apoteosi, le varie declinazioni della bellezza raccontate di nascosto da due innamorati che, occultati dietro una colonna ridono della tradizione, come complici di un segreto, ridono della pragmaticità, ridono della realtà, nella loro amabile discussione sono innamorati e la realtà, in quell’istante, scompare, non ha senso, e si svela la verità, “la reale e doppia fisionomia nostra spariva via”.
La bellezza dell’innamoramento nato sotto base intellettuale, da un lato la tradizione che insegna rigorosa, dall’altra i due innamorati “che alle sue spalle ridono dell’aneddoto” e si contrastano amabilmente su tutte le sfumature della bellezza “aria, fiato, facoltà vitale, brio, intelligenza, indole, estro, soffio, refolo, vento, venticello, essenza, soluzione, volatile, proporzione, naturale, denaturato, verde, rosa, viola del pensiero, mente giudicante, lampo, riflessione, limpido, cupo, commovente, coscienza, allucinazione, cena ed invitati, colori che divorano colori”, ognuna di queste parole richiederebbe una speculazione diffusa, un trattato per descriverla, ma se la tradizione, a mo’ di guida turistica non ci riesce, agli innamorati questa enciclopedia del sapere è notissima nello sfiorarsi la mano, nel bacio, e nel sorriso. Loro sono una “distilleria abusiva”, non sono la cultura ufficiale, tradizionale, ma tale distilleria “goccia a goccia secerne puro spirito”, ossia verità.
E’ il concetto espresso all’inverso ne “La Moda del Respiro” sopra menzionata, i due innamorati, qui, trovano la verità estraniandosi non da un ragionamento canonico e tradizionale ma da una moda sempre nuova, tecnologica, da giovani che si rifugiano in “misteri”, cioè in quelle esperienze per loro esaltanti ma che risultano “spiegabili perché non intralciate, dai cupi sedimenti dei passati”, e finiscono col fare una rivoluzione, che in realtà è una rivolta di gruppo “frenetici in un ballo senza scopo”, ma gli innamorati scoprono sé altrove “noi nella stanza accanto e la moda cambiò nel respiro, il nostro che cambiava ogni tanto”, verso che lascio interpretare, il respiro d’assoluto dov’è? Sempre nell’amore.
L’album termina con “La Voce del Viso”, vale a dire il suono delle parole, testamento artistico di Battisti, ma la musica ricorda un po’ il crogiolarsi festoso di una campana, come se Lucio cantando la superiorità dell’arte e dell’artista, voglia lasciar intendere, come descritto in “Estetica” ed in “La Moda nel Respiro”, non prendetevi troppo sul serio, la vera arte ed il vero amore sono soprattutto divertimento, ma non come bisecazione o trastullo, bensì come il saper ridere, assieme, di tutto, la luce della rosa, la rosa nella croce.
Questa interpretazione, spero gradita ai lettori, è un omaggio, per quanto balbettante, dell’arte di Lucio, in occasione delle feste natalizie. Non dimenticando che l’arte è ciò che salverà il mondo, l’arte deve essere presente in ogni disciplina e scienza empirica, in ogni professione e mestiere, perché ingloba amore, passione, l’ironia del non prendersi sul serio e il riso, il sorriso di quanto l’uomo si affanni alla ricerca di qualcosa che in realtà è a portata di mano. E l’arte è soprattutto ricerca, amore che cerca bellezza, e quando la trova c’è l’opera d’arte, la scoperta scientifica, il capolavoro. Vale anche per la vita quotidiana.
Giovanni Di Rubba