C’è una Santa venerata dalla Chiesa Cattolica, Casilda (nella foto il dipinto di Francisco de Zurbaran; Museo di Madrid), di religione islamica, educata agli insegnamenti islamici e convinta credente. Una donna musulmana, dunque, una donna appartenente ad una religione che spesso, nell’ottica comune di noi occidentali, è in quanto tale sottomessa completamente all’autorità paterna prima, del marito poi, priva di libertà propria, reclusa, sofferente, incapace di mutare le situazioni politiche e per nulla coinvolta in esse.
Ma la leggenda di Casilda deve indurci ad una riflessione, forse ad una speranza, forse ancora alla muta sicurezza che le cose possono cambiare e che la forza della violenza, la barbarie, la spietatezza, nulla può nei confronti della poesia, dell’essenza femminea, respiro sommo d’ascesa, profumo dell’assoluto, rivolta silente e trasognata eppure tanto reale. Principessa del cuore, rosa odorosa del giardino incantato, punto d’armonia assoluto, verità palesata e carnale, assolo mistico, trascendenza paonazza, ristoro e rigenerazione del tempo, molla dell’universo, chiave di volta del creato.
La leggenda è persiana, il termine principessa è d’obbligo, e narra del persecutore islamico di cristiani accecato dall’ira Zenon, vissuto probabilmente intorno al XI secolo del Signore, che conquistò la città di Toledo e, non ammettendo altra fede che quella di Allah e del suo profeta Maometto, convinto di difendere a spada tratta la Verità, fece rinchiudere tutti i cristiani del luogo nelle secrete del suo palazzo, nell’attesa che si convertissero e rinunciassero al loro credo. Le sue intenzioni erano non malvagie, quasi salvifiche, era lui il portatore del messaggio trascendente unico, gli altri dovevano sottomettersi ad esso.
Non era Zenon un feroce saraceno, dall’indole implacabile, era un amante della bellezza, un uomo saggio che nella città castigliana aveva fatto costruire un palazzo, strade, giardini, proprio come nella sua Persia, e tanto simile vedeva la Spagna alla sua patria, tanto le persone, la gente, il popolo, i mercanti, il dolcissimo frastuono chiassoso, la magica velatura sublime del manto stellato nel silenzio che profuma d’assoluto.
Accanto a lui vi era la figlia, Casilda appunto, cresciuta in Persia ed educata dai maggiori saggi del luogo, nonché dallo stesso padre, che aveva preso a modello. Era una ragazza dolcissima, intrigante, colma di fantasia e di grazia, sincera, dal cuore limpido, dagli intensissimi occhi profondi, affascinante e cortese, incantatrice degli animi, dalla empireica temperanza e dall’innato senso di giustizia, docile nello sguardo ma alterissima contro le insidie della doppiezza e della bramosia. Fin troppo intelligente per non accorgersi che la gente del luogo, che tanto amava, non vedeva di buon occhio il padre, e ciò la inquietava, non comprendeva tale discrasia, il perché avessero in odio un uomo tanto saggio e dall’animo pio, devotissimo al corano ed agli insegnamenti dei dotti. Nulla sapeva della segregazione e delle deportazioni messe in atto nei confronti dei seguaci di Cristo, il padre non voleva che lei ne fosse edotta, forse silente in lui era un conflitto ma smorzato dalla fermezza della spada della sua presunta tensione verso la giustizia e la verità.
La notte dal palazzo giungevano gemiti e lamenti, pianti striduli, di tante persone che era come fossero unite in una sola placida lacrima di sofferenza e prima ancora di chi soffriva l’infame ingiustizia, e forse ancora più in profondità di chi pagava il suo amore con la persecuzione, grido sordo di chi, tuttavia, nel lamento non precludeva la misericordia, non cadeva nella rabbia e nell’odio. Consultati i suoi amici, Casilda capì la sua inquietudine, capì il perché di tale sotterranea sofferenza ricoperta da una edenica realtà, dai fastosi giardini, invidia dei pensili babilonesi, dalle sfarzose stanze, dalla poesia degli odori soavemente melodici dei fiori che tanto amava, dagli agrumeti e dall’inebriante sapore dei frutti. Decise così, ogni notte, di recarsi in segreto nei sotterranei di palazzo, portando cibo, conforto, carezze ed amore ai perseguitati. Lei sapeva chi erano e conosceva Gesù di Nazareth, l’aveva studiato nelle sue terre, sapeva che era un profeta giusto, non poteva non sostenere con la sua altera grazia, con la sua umile intensità di spirito quei cristiani. Le guardie la lasciavano fare, ammaliati dalla sua essenza profondissima, nessuno osava riferire al padre le incursioni notturne della graziosa Casilda.
Un giorno, però, la ragazza prese la situazione di petto, affrontò il padre, delusa, chiedendogli conto del suo comportamento, ma con fare dimesso e parole sicure, con rispetto che non era critica o disprezzo, ma amara delusione. Zenon le ordinò di restare chiusa nelle sue stanze e di uscirvi solo dietro suo ordine. Con rimpianto soffocato, e per l’interesse superiore dello Stato, limitò le sue uscite e la sua libertà.
Purtuttavia Casilda continuò, furtiva, a dare conforto ai prigionieri, portando pane e dolcezza. Il padre, venutolo a sapere, la fermò nel pieno della notte con sotto la veste i panini che portava ai reclusi per sfamarsi. Prontamente e con violenza le ordinò di mostrare ciò che teneva nascosto. La ragazza lasciò i lembi e caddero tante di quelle rose che trapuntarono i suoi piedi e si posero come un manto tra lui ed il genitore.
La notte delle rose, così fu detta quella strana notte, quel misterioso miracolo.
Il giorno dopo i prigionieri furono tutti liberati.
Cosa accadde, il pane che sfama i corpi divenne dolcissima leziosia, divenne la rosa che risplende nel cuore dei poeti. Non di solo pane vive l’uomo, è scritto, la giustizia che voleva attuare Zenon era una giustizia cieca e terrena, che nel nome della religione credeva di punire gli uomini esercitando violenza su di essi, limitandoli nella loro corporalità. La rosa risplendeva ai suoi piedi, simbolo dell’amore dolcissimo, della divina misericordia, simbolo della trinità, i petali e le corolle sono il corpo, ma svuotate dell’anima che ne è insita non significherebbero nulla, hanno immanente a sé un’anima, una poesia dolcissima che è la grazia somma del creato, l’essenza di Dio e la divinità si manifesta con lo spirito inondando il vuoto segno geometrico delle grazie dell’anima immanente, l’odore sublime, l’incantevole colore, la cromatica intensità della vita che copre lo squallore del grigio stemperamento dell’alma, il profumo nella sua multiforme varietà che scuote i nostri sensi e ci trascina tra le braccia del divino.
Turbato Zenon da tale pensiero, impresso nei suoi occhi e pensato in un solo istante, come se si condensasse in un momento tutto ciò in cui egli credeva e se ne comprendesse la pochezza senza la possibilità di vivere intensamente ciò che detta al cor la poesia. Come se il pane della vita avesse mostrato la sua vera natura nascosta, la sua essenza, il corpo trasmutato, transustanziazione del tutto. Quella notte, scosso, cadde in un profondo sonno, sognando di trovarsi in un labirinto intricato da cui non riusciva ad uscire e la sua angoscia aumentava sempre più finché non gli parve di sprofondare in un vortice buio. Cadde in un tunnel profondo, al termine del quale, in uno spazio immenso e senza confini, vide in lontananza una persona china su di un tavolo a scrivere. Volle raggiungerla ma si parò innanzi un muro pieno di rose rampicanti che gli ostruivano il cammino. Ne colse un a e quella all’istante si tramutò in una figura angelica che gli ricordava una ragazza della sua gioventù. Questa lo condusse per mano ai confini estremi di quell’infinito, sterminato territorio. Qui, in una luce abbagliante, scorse Gesù di Nazareth intento a scrivere su una pergamena.
Si scorse per vedere cosa vi fosse scritto ed in un tripudio di luci, in un trepidare di melodiosi suoni, in un intenso profumo che gli ricordava i giardini della sua infanzia, che sterminati paragonava all’alma sua, vide cosa c’era scritto. Le parole Dio ed Allah si fusero insieme e composero una terza parola: Amore.
Una goccia può inondare il cielo, e la bellezza, la dolcezza, la grazia, liberare l’uomo dalle catene della sua corporalissima sete di vendetta, dal suo credersi padrone e non custode della verità e del mondo e dell’universo tutto. Il canto di una ragazza, la sua voce, la sua grazia, rinsaviscono, rigenerano e fanno scorgere il senso ultimo delle cose, la ragione dell’esistenza, lo scopo dell’uomo immagine di Dio. La ricerca. Ma la ricerca, di qualsiasi tipo, non può che essere Amore che brama Bellezza, e una volta scorta, in una apparenza che ne tramortisce i sensi e lo pone all’ottavo grado di gioia, trovare l’armonia in sé, perché una ragazza può distruggere, ricomponendola, tutta l’armonia del creato.
Giovanni Di Rubba