Il mito di Circe “plasmatrice dell’animo”

circe plasmatrice dell'animoChi non è mai rimasto affascinato dalla figura della maga Circe, la celebre donna solitaria, selvaggia, dominatrice austera della Natura, che abitava la splendente isola di Eea, sul promontorio del Circeo, dal greco “kirkos”- ossia di forma circolare, ma anche falco-. Tutti conoscono la leggenda, tramandataci da Omero, la “visita” a Circe è solo una delle tante tappe del maledetto periplo ulissico.

Omero la menziona nel canto X dedicando alla ragazza “dai riccioli belli, dea tremenda dalla voce umana” ben quattrocento versi circa. Ella viveva immortale, sospesa tra abisso e sfera divina, in un immenso palazzo, una pothnia fyton, dominatrice della flora, di ogni sorta di pianta, erba e verdura, usate come medicamenti, come potenti veleni e come pozioni incantatrici e magiche, ed inoltre una pothnia theron, aveva infatti ai suoi piedi tutte le fiere, anche le più feroci e selvagge che al suo sguardo e alle sue ondulazioni delle mani ricolme di grazia erano mansuete e docili.

Questa figura di Circe-Lamia, strega, bellissima ma terribile, quasi una divoratrice di uomini, una terribile seduttrice, una femme fatale, è solo una parte, incompleta, della sua immagine, una immagine che ne esula l’essenza, influenzata dalla cultura Romana, quindi medioevale ed infine ottocentesca che si ha di lei, una immagine che lo stesso mito omerico, così come altri più antichi, non ritengono, seppure di necessaria valenza pratica, fondante. L’essenza, intimamente collegata col furore dell’apparenza è un’altra, ben più alta, spirituale, genealogica e plasmatrice degli animi. L’aspetto materiale è quello simile alla Salomè biblica, la seduttrice che nel Vangelo di Marco chiede a Erode, dopo la danza, la testa del profeta Giovanni Battisti, episodio simile alla leggenda celebre dell’omonima Lou Von Salomè che molti secoli dopo col suo fascino farà perdere la testa a Federico Nietzsche ex Guglielmo.

Una rappresentazione misogina per quanto affascinante, una Circe che corrisponde alle descrizioni fatteci da altri autori, Virgilio, che racconterà di un Enea che nel VII canto con i suoi compagni ascolta l’ululare di cani e la soave ma malefica voce di Circe dal bel canto, e cogliendone la natura perversa non si lascerà incantare non approdando sull’isola, o in Ovidio, nelle Metamorfosi, dove Circe appare ben tre volte, e nel caso di Ulisse è una donna ribelle ma che deve, giustamente a suo dire, essere soggiogata perché non può arrogarsi il diritto di essere come o superiore all’uomo in libertà.

Ma chi era davvero Circe? Ce lo narra Esiodo. Figlia del dio del sole Elios e della ninfa Pesside, sorella di Aites, padre di Medea, appartenente alla atavica stirpe di Oceano. Per il suo rifiuto di sottomettersi alle volontà del marito, re dei Sarmati, lo assassinò e iniziò una vita solinga nell’isola di Eea, dove ospitava forestieri, tramutandoli spesso in animali, come fece con i compagni di Ulisse e -come fece in un altro episodio, raccontatoci da Ovidio- anche con Scilla, la bellissima moglie del dio marino Glauco, di cui ella si era innamorata. Non corrisposta, tramutò la moglie di questi nel terribile mostro che si nasconde, accanto a Cariddi, il creatore di vortici e tempeste, presso lo stretto di Messina.

Una dea insomma, non tanto una maga, ove si considerasse il ruolo di maga quello di emissaria tra divino e terreno. Forse anche una maga, una donna in bilico, una ragazza, tutto sommato, in bilico, maga/strega/lamia/maledetta/maldicente nella dimensione materiale, divina trasformatrice di animi, plasmatrice di caratteri ed essenze su un piano spirituale. Una dea arcaica, ambivalente, da un lato Artemide, da un lato Ecate, da un lato amante del bel canto ed ammaliatrice, dall’altro dolce assenzio che porta alla perdizione, trastullo dell’animo e dell’intelletto, deinè theòs audessa, divinità dalla terribile voce umana. Incisa su vasi greci del VI sec. a.C. ella appare nuda, coi riccioli sciolti e non raccolti alla maniera greca, erta sensualissima ed in posa da erotica dominatrice innanzi ad uomini-animali.

La sua essenza maledetta e magica, seduttiva, si perde nella notte dei tempi, accostabile ad altre divinità di tradizione mesopotamica, ma anche egizia, come la Hathor, o Fenicio-Cartaginesi, come Tanit, la Luna. Quest’ultima veniva rappresentata come un’immagine femminile stilizzata tra gruppi di stelle, a fondamento di eternità, legato alla natura celeste dell’astro, luna mutevole d’aspetto nelle sue fasi, pallida, luminosa, invisibile, dea dell’Amore e della Morte, Creatrice e Distruttrice, Tenera e Crudele, Protettrice ed Ingannevole. E da qui verrà identificata anche dai cristiani come Lilith, la Luna nera dei Semiti, demone infernale e protettrice delle streghe.

Figura biblica, Lilith, nella Genesi creata ad immagine e simiglianza dell’uomo che -mito analogo a quello dell’assassinio del marito della Nostra- rifiuta di sottomettersi al marito e per ciò stesso è condannata a vagare né viva né morta sulla terra, ritenendo Dio plasmare, questa volta dalla costola di Adamo, un essere più pacato e sottomesso, a tratti ingenuo, Eva, perfetta donna di casa. E non mancano altre analogie, restando sempre nel mito omerico, Circe può essere accostata ad un’altra donna-carceriera, Calipso –colei che nasconde-. Anch’ella dea, rappresenta una femminilità possessiva, protettrice, quasi materna, che tiene prigioniero l’eroe per sottometterlo, dando per scontata la sottomissione della donna all’uomo. E per sette lunghi anni Ulisse è triste di tale prigionia. Nel caso di Circe la storia è diversa, lei non riesce a tramutarlo in belva, grazie al moly, l’erba donatagli da Hermes, messaggero degli dei e portatore della sapienza divina agli uomini. A tal punto, ella le offre il suo letto e, nell’oblio dei sensi, Ulisse ed i suoi restano per un anno in preda al sapienzial ammaliamento. C’è una posizione di assoluta parità, se non quasi di superiorità femminile. Circe è libera e quando l’eroe decide di partire la stessa non glielo impedirà, ed anzi gli darà preziosi consigli quando l’itachiano dovrà discendere nel regno di Persefone, o attraversare Scilla e Cariddi.

Dagli albori della cristianità la mitica figura della divina Circe, la sua valenza simbolica, la sua immagine rappresentatrice di dignità, libertà e forza femminea, verrà celata, messa da parte, travisata, in un’ottica paolina della Chiesa di Roma, mulieres in ecclesia taceant. Tuttavia gli gnostici, in particolare i membri della setta gnostica degli Ofiti -dal greco òphis e dall’ebraico nâhâsh, serpente-, di cui il testo più recente, del 200-300 d.C. è il Pistis Sophia. Noto anche come libro del Salvatore, scritto in lingua copta con diversi riferimenti a nomi di demoni o divinità ricorrenti in testi magici egiziani. Il credo affonda le radici in filosofie esistite in Siria e in Mesopotamia, in Grecia ed addirittura nelle teogonie dei paesi precolombiani dell’America Centrale e dell’America del Sud, nonché in molte tribù del Nord America.

Tralasciando la complessa cosmogonia, non necessaria per l’economia del discorso, ci limitiamo a sottolineare come gli adepti credessero nel Potere della Conoscenza, Pistis Sophia. Ella segue la menzognera luce dell’Arrogante perché la scambia per una luce superiore, che lei brama contemplare cadendo negli abissi delle acque e da Sophia prende il nome di Prunico (ovvero la lascivia). Nel testo il ruolo delle donne è centrale, appaiono Maria, madre di Gesù, Salomè, Marta e Maria Maddalena. Quest’ultima figura di gran lunga dominante nel testo (e non solo nel raffronto con le altre donne ma anche con i discepoli). Maria Maddalena interviene, e in contesti sempre importanti, per ben sessantasette volte. Una vera e propria intermediatrice tra divino e umano, cui Gesù tesse le più ampie lodi. Spesso la donna intercedere per i discepoli stessi quando i medesimi non riescono a seguire le parole del Cristo. E’ definita la più eletta, il cui cuore è “rivolto al regno dei cieli più di tutti i tuoi fratelli”. In analogia col mito di Circe ella è per gli iniziati la sposa e sacerdotessa di Gesù, simbolizzando la gnosi, la conoscenza, l’unione simbolica ad un tempo sensuale e spirituale, divenendo contemporaneamente la tentazione e la salvezza, conoscitrice del peccato, gradino sommo, redenta e redentrice, portatrice di sapienza, essenza femminea di Hermes, luce che istruisce e plasma le anime degli interlocutori sotto l’egida del logos manifesto ed incarnato.

Essenziale è stato questo accenno alla Pistis Sophia per cogliere il legame tra Circe e Dante ed i Fedeli d’Amore. Parliamo di Dante perché a nostro avviso è l’esponente massimo delle correnti duecentesche dell’amor cortese, da quelle provenzali a quelle siciliane passando per le spagnole. Anche perché un’analisi completa risulterebbe gravosa e prolissa per l’economia del discorso. Interessa vedere il ruolo centrale della donna, almeno sommariamente, per passare al ruolo di Circe nel Sommo Poeta, tralasciando anche le fin troppo note analisi sui Fedeli condotte da diversi studiosi circa l’aspetto politico di questa setta, da Rosetti ad Aroux, al Pascoli, che ne forniscono una interpretazione meramente politica o più precisamente prevalentemente politica, come nata nei paesi di lingua doca ed avente come scopo quello di sovvertire l’ordine ecclesiastico basato sul potere del papato a favore dell’impero, in un’ottica del tutto Ghibellina,- la cosiddetta milizia ghibellina- o quella di Guénon che distingue l’esoterismo dall’essoterismo e come dietro all’esteriorità dei modi e delle credenze si nascondesse una realtà di iniziati. Tutte tesi che, imprescindibilmente, prendono le mosse da una continuità tra Fedeli d’Amore, Rosa Croce e Massoneria, nel caso di Guénon anche tra Templari e Rosacroce, seppure non diretta ma giocata sulla similarità di terminologia, gradi, valenze simboliche, significati di là dal letterale , teologico-filosofico ed allegorico che si aprono ad una teleologia verso l’assoluto.

Questo aspetto è centrale, teleologia, e la chiave di questa teleologia è la donna, incarnazione della Santa Sapienza, della Pistis Sophia, tramite tra il sensibile e il sovrasensibile, tramite di sublimazione dell’essere e sua metamorfosi. Ecco Circe. Dante ebbe modo di studiare Plotino ed il neoplatonismo, che nonostante tutto hanno tanto in comune. Il cui cardine movente, la molla verso il nous, la somma intelligenza, è l’eros, inteso come pulsione di ricerca d’assoluto. Amore che cerca Bellezza, in quanto kalos kai aghatos, ciò che è bello è buono, perché ciò che c’è di bello è splendente, lume divino, dall’interiorità e dal corpo, e per promanazione della luce mistica plasma l’ama di chi ama, la trasforma, come Circe con gli uomini, rendendola ciò che è, il sé stesso più autentico ricercato dall’essente, la vera ed unica felicità nella contemplazione che smuove i sensi, recepita da chi si pone in una ottica di ascolto mistico, perché “al cor gentil rempaira sempre amore”.

E come sostiene Guénon connessioni ci sono con i Templari, e con la loro visione mistico-gnostica, di ascesi interiore, e che è presa senz’altro dal sufismo islamico, che attinse a sua volta dalla visione della donna allegorica dell’essenza somma e divina plasmatrice tipica della cultura persiana, di cui un esempio splendido di estasi femminea e di importanza della donna per il mutamento interiore è dato dalla leggenda di Casilda di Tolosa, da Noi raccontata e novellata in un precedente articolo dell’8 febbraio. Connessioni ovviamente con la cultura provenzale, con la setta gnostica dei catari, che avevano come fulcro delle loro credenze, come chiave di volta il vangelo di Giovanni, il più spirituale, e nel quale Circe riappare di nuovo, come uno spettro silente. Nel “Consolamentum” , pratica che i perfetti esercitavano con l’imposizione delle mani per far discendere lo spirito, si leggeva il vangelo di Giovanni, nell’ottica di purificazione dell’alma, metamorfosi della stessa, dottrina questa quantomai atavica, di matrice indoeuropea e giunta in Occitania sempre attraverso le sette gnostiche islamiche, attraverso la vicina Spagna. Dopo tale sommarissima riflessione, passiamo a cercare, in maniera più esplicita, Circe.

La divina maga compare nel canto XXVI dell’inferno, ed è la prima parola pronunciata da Ulisse. Nel verso 92 egli racchiude l’intero periplo omerico narrando un solo evento del lunghissimo viaggio, quello di Circe. “mi dipartì da Circe, che sottrasse/me più d’un anno là presso a Gaeta,/prima che sì Enea la nomasse”. E non è per nulla un caso che subito dopo, qualche verso più in là c’è il celeberrimo “Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza”. Circe non è per nulla marginale nel racconto del piè veloce, ella rappresenta e sintetizza il viaggio, letto in un’ottica iniziatica è colei che trasforma, che scruta i perigli, la molla ultima delle prove da superare. È colei che plasma, il ristoro che innalza, la sirena incantatrice ed ammaliatrice che rende l’uomo ciò che è.

Rende Ulisse ed i compagni sé stessi, e non uomini di casa, di famiglia, di affetti definitivi, ma eroi, che anche nella vecchiezza restano tali, eterni adolescenti che bramano. Da uomini trasformati in semidei, Circe dà questa forza motrice, innalza l’uomo alla virtù somma, al memento audere semper, trasmuta la semenza, “fatti non foste a viver come bruti”, avete superato l’ostacolo, siete stati plasmati eroi e non bestie di basso rango, il vostro scopo è ora la ricerca ardita della bellezza. “seguir virtude e canoscenza”, attraverso la virtù giungere alla conoscenza. Sino quasi alle spiagge del purgatorio, inabissandosi ma quando ci si alza, come la loro imbarcazione, osando, e come sostiene Nietzsche, quando guardi troppo l’abisso pure lui vorrà guardare dentro di te.

Il ruolo di dea iniziatica, di ragazza che rompe e ricompone l’universo rendendoci ciò che siamo davvero, emerge chiarissimo in Giordano Bruno. Il Nolano cita Circe in due opere fondamentali, “Gli Eroici Furori” e “Il Canto di Circe”. Nel primo scritto l’ultimo dialogo narra di nove giovani, numero non casuale, innamorati di un’unica ragazza, tale Giulia, che si recano dalla Circe, un po’Ecate un po’Artemide, per essere guariti. Quest’ultima dona loro un unguento che, spalmato sugli occhi li rende ciechi. L’unico modo per riacquisire la vista è tramite l’aiuto di mani in cui “saggezza e castità sian giunte a bellezza”, ed è solo sulle rive del Tamigi che una dolce fanciulla gli riotterrà la vista. I nove ciechi rappresentano gli stati degli uomini, che vedono solo ombre della “divina beltade” o addirittura solo il buio. Per riacquistare la vista, ovvero la illuminazione, la conoscenza piena dell’essenza delle cose, e dell’Universo tutto, dovranno superare delle prove.

Quindi tre concetti, la cecità o scarsa vista degli uomini, la necessità di essere illuminati per entrare a far parte della Natura e dell’Universo divenendo parte del tutto in maniera autentica e dunque tutto ad un tempo e respirare l’armonia ed il bel canto e la “divina beltade”, attraverso la divinità che presiede e regola l’armonia cosmica, Circe, la plasmatrice dell’animo umano. Ultimo punto, la conoscenza, la Santa Sapienza, l’intelligenza attiva, la Pistis Sophia, anche in questo caso altro non è che bellezza, amore che cerca la divina beltade; saggezza e castità sian giunte a beltade, viaggio iniziatico per la partecipazione all’assoluto. Nel “Canto di Circe”, trattato di mnemotecnica, interessa osservare il primo dei due libri che lo compongono. Il dialogo primo è tra Circe stessa e la sua ancella Meri, che inizia con diverse stupende invocazioni a divinità solari e lunari ed a belve di ogni tipo e clorofille, ad ogni essente che è sotto il suo dominio, invocazione che ha come scopo quello di portare alla luce le diverse forme bestiali dell’animo umano, che denota lo scopo di tale divina plasmatrice, inizia la descrizione dei singoli esseri, dei singoli animali, e dunque delle singole anime umane intrappolate nella materia e che non usano tale materia per diffondere lo spirito che emana dall’alma perché l’alma stessa è in essi vittima del corpo che da custode diviene esso stesso plasmatore, ponendo l’essere umano nella condizione di schiavo ed escludendolo dall’illuminazione, dalla luce, dal respiro, lo ripeto, dell’universo, dal melodioso canto dell’armonia celeste e naturale, dalle docili e dolci dissonanze armoniche del sé.

La diversità è elusa da una uniformità della idiozia corporale, solo l’illuminazione potrà evolvere i bruti soggiogati dalla materia e condurli ad essere realmente differenti e realmente unici e realmente partecipi del tutto. E tale partecipazione, e qui c’è un indissolubile collegamento con Giovanni, si ottiene con il Logos, col Verbo primigenio, col Verbo creante, la parola creatrice, ciò che rende l’uomo simile al divino e parte del divino, nomoteta e custode e partecipe. Verbo che l’anima degradata a bestia ha perso, ponendosi nella trappola della materialità bestiale.

E concludo proprio con la interessantissima gerarchia di alme-animali fatta dal Nolano, che parte dagli infimi, i terrestri, il porco che si rotola nella sua stessa immoralità e bassezza, il cane che attacca tutto ciò che non comprende, i muli né cavalli né asini e dunque né eloquenti e né filosofi pur spacciandosi per tali, il capro dedito solo al desio sessuale ed al trastullo, le scimmie imitatrici, i cammelli che traggono la loro conoscenza solo dagli altri più grandi di loro, le giraffe formalmente puritane sostanzialmente lascive, le iene che traggono il peggio dalle cose migliori, i cervi che ascoltano solo ciò che gli interessa, gli elefanti che non sapendo far nulla danno giudizio sull’operato altrui, gli orsi che pur avendo la favella sono rozzi ed incolti, i leoni principi inetti ma fieri che si sottomettono all’autorità dei galli, l’istrice che si vendica se provocato, i ricci indifferenti a tutto e rinchiusi in sé avendo un animo aspro; passando poi agli acquatici, le testuggini che vivono solo del benessere dato da altri e non sanno godere di sé, i granchi che si rifugiano sotto le parole di persone autorevoli, i coccodrilli che minacciano chi li fugge e fuggono chi li minaccia, gli aspidi crudeli contro maestri e discepoli, i camaleonti che imitano tutti tranne l’essenza migliore e primigenia delle cose; infine i volatili, pavoni che lodano sé anche per inezie, gli usignoli che cantano in maniera perfettissima di cose di nessuna rilevanza, i cuculi che desideravano solo i beni altrui non contenti dei propri, l’aquila fiera ma inconscia dei suoi limiti, l’astore che lotta col nemico ma è sopraffatto da un terzo, lo struzzo che crede di nascondersi restando palese, gli avvoltoi che aspettano la morte dei potenti per ereditare le loro ricchezze, le lucciole che sono i saggi in mezzo agli incolti, i galli che sebbene solari, sommi, dotti, capaci, autorevoli sono soliti azzuffarsi per conquistare delle donne.

Giovanni Di Rubba

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