Oggi si festeggia il 73° anniversario della nascita di Lucio Battisti

anniversario battisti eredi artistici (1)Sono passati ben 73 anni dalla nascita di Lucio Battisti, Maestro e padre della musica italiana, che con la sua prorompente vena artistica, con la sua capacità di tessere pezzi innovati, superbi e d’avanguardia ha dato una svolta decisiva alla musica leggera nostrana, essendo sin da sempre uno studioso, un ricercatore di suggestioni artistiche, un musicista che dirigeva le parole, succubi alla sua musica e che si plasmavano col canto in un tripudio di energia, rozzezza e sublimità che risulta ben difficile riproporre.

Sin dagli esordi è stato un amante dell’arte intesa come essenza pura dell’esistente, consapevole della potenza che la musica ha, ha avuto ed avrà nel guidare gli animi. Nell’educarli. Egli non si adeguava ai ”facili entusiasmi ed ideologie alla moda” ma con i suoi pezzi era il faro che guidava le vacillanti navicelle della moda, non solo musicale, apriva i sentieri dell’evoluzione della società molto più di  tanti altri cantanti, i grandi cantautori cosiddetti impegnati, Guccini, De André, giusto per citarne alcuni. Lucio aveva intuito che non è parlando della politica che l’uomo evolve ma che è l’arte senza se e senza ma, l’arte per amor dell’arte che dipinge una comunità, un modo di vedere le cose, un modo di raccontare l’amore in maniera alternativa e dunque pura e maledetta ad un tempo. Tracciare su carta bolle acustiche, elementi di quotidianità, senza mai schierarsi con l’uno o l’altro partito, modernissimo anche in questo. La quotidianità come evoluzione dell’essere, suo stato ideale eppure per ciò stesso concretissimo. L’irrealtà, il surreale, le questioncine da poco, diventavano e diventano emblema dell’assoluto e la luce del divino illuminavano la materia e la vita di ognuno. L’Italia non sarebbe più stata la stessa.

E sebbene diversi i pezzi, a seconda del periodo, con Giulio Rapetti, alias Mogol, con la consorte Grazia Letizia Veronesi, alias Velezia, con Pasquale Panella, tutto era sempre uguale, tutto era sempre un continuo innovare, una passione inesauribile per la ricerca, Lucio era uno che viveva per cercare la perfezione nella strabicità botticelliana, era la voce, il suono, l’arte, la parola e il canto d’amore che ricerca incessantemente la bellezza ed ogni giorno di ricerca incontra il divino.

E tutto sin da subito, sin dagli esordi, musicista prima, finalmente anche usignolo dalla voce ribelle, ogni album ci regalava l’assoluto, ogni pezzo era un capolavoro, una volta inciso non c’era errore, grossolanità, banalità, era tutto perfettissimo. Dai primi pezzi subito si intuì l’innovazione, grazie a quello che lui stesso definirà “un contrasto di forze contrastanti”, unirà sempre la melodia del paese ove il bel sì sona, quella tradizionale, con ritmi blues, come fece con “Un’Avventura” col rock di “Insieme a te sto bene” e del “Le tre verità”. Poi ancora la medievaleggiante “Era”, “Acqua azzurra acqua chiara”, “La canzone del sole”, “Mi ritorni in mente”, “Non è Francesca”- la cui lunghissima coda strumentale è composta in reverse, primo caso italiano-.

Una voglia matta di sperimentare che lo porterà verso sonorità sempre diverse, la primordiale ancestralità dell’album “Amore e non Amore”, e di “La canzone della Terra”, l’amore libero contato in “La collina dei ciliegi” e nell’album “Anima Latina”, ove la musica detta più che mai legge sulla parola- in principio c’era il suono, poi il verbo, se suono è la più palese manifestazione dello spirito, che aleggia sugli abissi-. E ce n’è anche per il misticismo materialista di “Il nostro caro angelo” ove la divinità si scorge altrove, nella libertà nuovissima che erode la tradizione e connota tutto la realtà di luce nuovissima, incessante amore. Il tutto legato ad una ottica panica, quasi panteistica, se non addirittura panpsichistica, ed “Il mio canto libero” ne è l’emblema, il desiderio di un ritorno ai sapori antichi della natura, più, molto di più di mero ambientalismo, vera e propria ricerca del sussurro lieve degli angeli, degli emissari del trascendente, dell’Anima Mundi, nell’odore dei fiori, nel candido sorgere del tramonto, nel respiro dell’aurora. Ed in paradosso “la veste dei fantasmi del passato/ cadendo lascia il quadro immacolato/ e s’alza un vento tiepido d’amore, /di vero amore”. E c’è poi quel “riscopro te”.

Spesso accusato di maschilismo nei suoi testi, addirittura di fascismo e di essere un reazionario, giudizio superficiale, fatto da studentuoli e critici schierati, e che sarà smentito nella successiva produzione panelliana, di cui “Anima Latina” e questo “riscopro te”, saranno forse il preludio. Una visione angelicata della donna che non è per nulla l’angelo del focolare domestico, ma tramite per la contemplazione del trascendente, rosa candida, in un’ottica da Fedeli d’Amore, in un substrato di Pistis Sophia.

Dal ’75 in poi ci sarà la svolta, Lucio passera a nuovi miscugli alchemici, la melodia italiana, la Canzone che Egli incarna, ben diversa dalla Chansonette di francese memoria e a cui molti artisti schierati o cantautori di sinistra si ispireranno. Una Canzone che, lo ripetiamo, è del tutto anarchica, ed anarchicamente segue la decadenza dell’essere in sé e genera il futuro, senza adeguarsi.

Di lì in poi la melodia italiana, dicevo, sarà miscelata a ritmi disco, alla dance, i testi sempre più ricalcheranno in modo originale la nuova quotidianità, estranea al fervore della rivoluzione, che emergeva nei precedenti album, una quotidianità che si appresta a varcare la soglia dei goderecci anni ottanta.

Ma se la verve artistica di Lucio era continua, incessante, sempre disposta a nuove suggestioni, quella del paroliere di sempre, Mogol, sembrava non essere più adatta all’avanguardia, sembravano i testi, ad un certo punto, ripetersi e cadere nella banalità del già detto, già ascoltato, già fatto o fattibile da altri. Occorreva una svolta.

Ci fu una rottura del sodalizio artistico e i nuovi testi furono composti in famiglia, dalla consorte, nome d’arte Velezia. Testi in cui si rispecchia la poesia americana del ‘900, le teorie illuministe, la passione per le scienze, per la fisica, per la matematica –disciplina in cui il nostro si stava laureando- e per lo sport. È questo, senz’altro, il lavoro più autobiografico di Battisti. “E già”.

Ma serviva altro, meglio, la necessità di gettare su carta eurodance, techno, house, rap, dub, reggae, musica elettronica, di comporre in maniera pitagorica e perfetta, scientifica, artisticamente in sezione aurea, seguendo talora suggestioni compositive da harmonia coeli. Ci fu un esperimento, l’incontro con Pasquale Panella, già autore di rivoluzionari quanto misconosciuti testi con Enzo Carrella, e l’esperimento, comporre un album “Oh era ora” cantato da Adriano Pappalardo, scritto da Lino, arrangiato da Lucio. Fu quasi un fiasco, ma come ogni Maestro che si rispetti Battisti ne era soddisfatto e da allora in poi, dal 1986 al 1994, ogni due anni, uscirà una fatica, musica e parole scritte da Luico Battisti e Pasquale Panella. Come se quella dizione presente nei dischi volesse sottintendere ciò che si poteva intuire da sempre, che Lucio si serviva dei parolieri, degli autori, ma cosa occorreva scrivere era lui ad abbozzarlo, a sceglierlo, a modificarlo, queste ultime due cose ancora più evidenti nei cinque ultimi “bianchi”, in cui in copertina c’erano illustrazioni dello stesso Lucio, in china.

Si va da “Don Giovanni”, ancora fortemente legato alle sonorità precedenti ma in cui emergerà il giocare con le parole; se Lucio utilizzava sin da sempre la sua voce come strumento ora le stesse parole, rompicapi verbali, sono a loro volta strumenti musicali.  Poi “L’Apparenza”,  in cui metafisica e surreale si sposano con il teatro dell’assurdo e con l’Orlando Furioso e con una materialità erotica, “La sposa occidentale”, del 1990, dove viene tracciata l’identità della tipica donna anni’90, tra divertimenti “candidi e perversi”, probabilmente “droga”, “intrugli amorosi” della splendida figura occidentale femminea. “CSAR” ed “Hegel” gli ultimi due album, di cui abbiamo discusso ampiamente in due Nostri articoli dello scorso anno, l’uno del 29 settembre “Oggi 29settembre. L’album CSAR di Lucio Battisti rià dignità dottrinale alla donna”  l’altro del 23 dicembre “Hegel di Lucio Battisti: l’arte come luce d’amore che ci conduce a scoprire la bellezza”,  ed a cui rimandiamo, sottolineando come in questi testi ci si addentri nella condizione mistica della donna, ribaltandone la visione di essere inferiore, miscelando quotidianità con eterismo, filosofia con divertimenti di adolescenti ai primi amori. Emerge la Maddalena, emerge il catarismo, emerge la Pistis Sophia, emerge la “Bellezza riunita”, la funzione di tramite per il godimento trascendente esercitata dalla figura femminile. Capiamo bene che questi cinque ultimi album sono capolavori inarrivabili, cui nessuno più ha osato, persino Franco Battiato, da sempre interessato alla mistica ed a culture esoticheggianti, all’aspetto trascendente dell’uomo, mai ha mostrato tale padronanza di linguaggio, conoscenza, miscela di generi, e gusto musicale. Il famoso “contrasto di forze contrastanti” che, qui, non è una babele dadaista, ma è ben incastrata, intarsiata e congiunta da creare un racconto unitario. Non semplici citazioni su basi musicali fredde, ma capolavori perfettissimi, precisi, studiati ma ad un tempo godibilissimi.

Il 9 di settembre del 1998 Lucio Battisti scompariva, lasciando un vuoto, come si dice banalmente in queste occasioni, incolmabile. Ed a 73 anni dalla nascita è su questo che vogliamo soffermarmi, chi sono, oggi, i legittimi eredi del Maestro della musica italiana. Non possiamo fare un nome che ne inglobi la personalità potente e faconda, la creatività, il gusto per la ricerca, la riservatezza sulla vita personale, il desiderio di trasmettere al pubblico solo la sua arte e la sua creazione, di mostrare il suo genio e non la sua persona. Ideale cui ogni comunicatore dovrebbe tendere, ove ritenga di definire valente il proprio messaggio, negando di spiegarlo, distruggendone così la valenza estetica e la pluralità di messaggi, che, novelli Hermes, gli artisti ci mandano, lasciando che al nostro cor rempaira amore così come noi siamo, aiutandoci a crescere divenendo noi stessi, evolvendo, senza livellarci ma secernendo l’alma nostra con lo spirito della musica e delle parole.

E’ arduo dividere una tale immensa eredità, anche perché la stessa non può limitarsi ad artisti che lo imitano sic et simpliciter. Ogni album di Lucio, infatti, così come ogni pezzo, è unico, e una eredità, se presente, può solo essere di artisti che fanno della ricerca la loro ragion d’essere artisti.

A tal proposito non riusciamo a fare un nome, ma a dividere l’eredità in tre parti, forse, sì.  Tre artisti all’apparenza tutt’altro che battistiani e che, forse, proprio per questo  sono i legittimari che mi vengono in mente: Max Gazzè, Carmen Consoli, i Baustelle.

Partiamo dal primo, al sua verve creativa è quantomai originale, una visione eterea dell’amore. Interessantissima, per quanto si soffermi solo su di un modo d’essere di Lucio. Pezzi quali  “Il debole tra i due”- inizio mozzafiato “Seduce te assorbendo/in stile molle e fermento/ un lento progredire/ dirottato verso l’abnorme/verso quel che male smisurato/che per il peso barcolli/ingrassi il respiro su me che ti ambivo la bocca”-; “Colloquium vitae” -“quei ragazzi alti come dio/ che vedono soltanto da seduti”-; “L’amore pensato”; “Su un ciliegio esterno”; “Cara Valentina”; “Poeta minore”; “Il motore degli eventi” -“io faccia di cartapesta punti neri/ e miscredente dell’irrealtà/ho bisogno di gelarmi e poi bruciare/se c’è davvero freddo e fuoco”-; “Sul Filo” -“e lei rimane di vetro/ed incespica dicendo che è felice/di partire/poi ritorna ad impegnarsi/su quella piega del vestito/non si accorge che cammino/in bilico su un filo”; “Comunque vada” -“non aver badato al tuo starnuto/al chiasso dei tuoi panni stesi/e l’aria limpida/nei corridoi/futilità dischiusa/scontami il perdono/ho una dignità di schiuma/pronta a soffocare”-   sono veri e propri capolavori, superficialmente si nota quasi una affinità con la produzione panelliana. Tuttavia il massimo bassista italiano crea amori, realtà, situazioni, quotidianità fumanti, stupende proprio per questo, con richiami ad una poesia dell’etereo, talora alla mitologia esistenziale, ma hanno una pecca-incredibile come quando si parli di Battisti la perfezione e la bellezza non sono mai abbastanza, c’è sempre “qualcosa che manca e se ci fosse è come non avesse nome”- manca quel di più presente nei bianchi, quell’etereo che fumante diventava sensuale e poi materialmente godereccio ed infine mistico. Comunque un ottimo erede, 1/3.

L’altro terzo sento di assegnarlo alla Cantantessa catanese. Carmen, soprattutto negli album dal 1996 al 2006 ha rappresentato il volto femminile del genio Battisti. Pezzi in cui si racconta la quotidianità dell’esistente, tra rock e folk sino alla musica d’autore. Ciononostante Battisti non voleva scrivere pezzi folk, “Il paradiso non è qui” fu scartato proprio per questo, narrando degli immigrati italiani in America. Ma la Carmen ha in comune con il cantante di Poggio Bustone la grinta, la voce graffiante e, come dicevo, la quotidianità dell’amore che non cade nel banale della ragazza o del ragazzo innamorato, secondo lo schema classico. “Amore di plastica”; “Lingua a sonagli”; il capolavoro “Confusa e felice”- “una goccia inonda il cielo”, ovvero “sto tremando e non c’è freddo/e sono vittima di questa gioia immensa”, “vorrei tentare/ vorrei offrirti le mie mani/vorrei difendere questo momento”; l’album arrabbiato “Mediamente isterica” con capolavori quali “Anello mancante”- “mentre accarezzavo/l’idea delle coincidenze/raccoglievo segnali” ovvero “quanti sforzi inauditi/per tollerare/ preconcetti e maldicenze”-; “Quattordici luglio” -“misto all’incenso il sapore/ di un pasto frugale/i ricordi storditi/dal tempo/pur essendo simile a tante/e tante altre/persone era speciale”-;  Ennesima eclisse”- “tra gli inferi il dubbio serpeggia/nessuna beata certezza/né l’ombra/di commovente pietà-.  Lei che rimane sempre “fedele a sé stessa”. Ma anche “Novembre ’99. L’isola del tesoro” -“facili lacrime/poca pazienza/ti sembrerò nostalgica”-. O “L’eccezione” “l’eccezione alla regola/insidia la norma”, insidia e non conferma, l’eccezione assurge a non essere immagine di emarginazione ma proprio in quanto al di là del modo d’essere comune “è forte quello che ho dentro/distante dalla mediocrità” direbbe in  un altro pezzo, si impone come norma, regola. Si impone nella sua originarietà. E poi tanti quadretti di vita vissuta che tuttavia non cadono nella cronaca strictu sensu, come altri pezzi in “L’abitudine di tornare”. C’è “Contessa miseria”; Matilde che odia i gatti; “Moderato in re minore”, ove si narra l’albero che foglie non ha più, ossia un insegnate solo la vigilia di Natale che non è riuscito a trovare la “compagna premurosa ed amabile”. O infine Maria Catena, cui la maldicenza la emargina dal paesino di provincia “secondo un antico proverbio/ogni menzogna alla lunga diventa/verità” ovvero una accesissima invettiva contro il pettegolezzo “pettegolezzo/imburrato infornato e mangiato/quale prelibatezza/e meschina delizia/per palati volgari/larghe bocche d’amianto/fetide come acque stagnanti”, ed anche qui il divino si rende conto della stupidità umana, della emarginazione cui molte donne sono oggi vittima, del sovvertimento della verità in una ottica misogina “Cristo in croce mostrava un sorriso indulgente/e quasi incredulo”. Altro punto di contatto con Battisti forse più che con lo stesso e grande De André, è la presenza del tragos, anzi più ancora del mito greco, “Elettra”, la storia di una prostituta si rifà alla figlia di Agamennone “amato abbracciami alla luce/del giorno/tra sguardi indignati e la frenesia/ del resto del  giorno” o anche la inquietante shakespeariana e orwelliana ad un tempo “Sulle rive di Morfeo” “Fuggi Romeo che il tempo è tiranno/non è d’usignolo ma di allodola il canto”, ovvero “sguardi famelici implorano/un piccolo assaggio di vita altrui”, commistione tipicamente battistiana, sapientemente geniale.

1/3 anche a Carmen dunque, per i ritratti mogoliani e il contenuto sociale che descrive un caso assurgendo lo stesso ad exemplum, come ai tempi de “Il mio canto libero” o de “La collina dei ciliegi”.

E per ultimo l’altro terzo, da assegnare ai Baustelle. La band senese, è quella che meglio ha descritto e sta descrivendo la situazione di adolescenti e post adolescenti di questi ultimi vent’anni di italietta. Di contorno un substrato culturale antropologico e sociale di transizione, una deriva ideologica, una incapacità palese di costruire. Cosa si racconta se non la generazione dei nati negli anni ottanta e novanta del secolo scorso ed ora anche di quelli nati nel primo lustro del nuovo secolo venturo (o venuto che poi è lo stesso). Se finora ci siamo fermati, infatti, al substrato ed all’essenza di testi e musica, alla loro capacità di narrare, raccontare, emozionare, partire dal concreto per giungere ad un significato allegorico, alto, se, insomma abbiamo parlato dei denotati, della tecnica, della musica, delle parole, degli eredi ambedue ad un tempo letterali-musicali-artistici ed allegorici, ora passiamo ad un significato altro, quello teleologico, quello di plasmatore, modellatore della realtà circostante. Siamo partiti da parole e musica che descrivono una situazione innalzandoci al divino ora si passa alla fase successiva, quella che dal divino modella il reale illuminando la materia di una luce nuova e quindi alla capacità di intuire mode, costumi, tendenze e, più profondamente, l’intero corso dell’evoluzione umana. Ed i Baustelle, in questi ultimi vent’anni di silenzio musicale del genio de cuius, hanno con le loro atmosfere nichiliste, con la narrazione del disagio, di vite ai margini, ricolmato di luce l’abisso dell’esistenza. Nel descrivere gli adolescenti ai margini di una società incapace di dare risposte hanno colto, un po’ come Carmen ne “L’eccezione”, la luce del vero. E se non colto, almeno intuito la presenza, tra “pozzanghere mezzo seccate” di ”una qualche disturbata divinità”, ovvero dello “anello che non tiene/che ci conduca nel mezzo di una qualche verità”.

C’è stata la caduta del muro di Berlino, ed agli inizi degli anni novanta anche i CCCP sono al tramonto, ultimo album “Epica Etnica Etica Pathos”, poi saranno CSI, fino al 2001, poi di nuovo dal 2013. Giovanni Lindo Ferretti esponente massimo del punk italiano e dell’alternative rock si pone su altri sentieri, non rinnegando sé, ma mostrando ciò che sempre era, in una sorta di conversione-presa di coscienza verso il cattolicesimo, quello più austero, razingheriano. Ci sono i Subsonica, ma manca quel tocco in più, quel qualcosa di nuovo, il famoso battistiano “contrasto di forze contrastanti”. Ed ecco i Baustelle: Rachele Bastreghi, Francesco Bianconi, Claudio Brasini.

Gruppo  nato a Montepulciano nel 1996, iniziano sin da subito a proporre alcuni demo, accolti con entusiasmo dagli addetti ai lavori, molti intuiranno quel quid pluris, ma sarà solo nel 1999 che sarà inciso il primo album “Il Sussidiario illustrato della giovinezza”, uscito però nell’estate del 2000, aprendo a colpo d’ascia su ghiaccio il Nuovo Millennio. Si scorgono richiami alla bossa nova, new wave, elettronica vintage, musica d’autore anni ’60 e ’70, soprattutto italiana e francese. Una commistione di generi frutto di una sapiente ricerca musicale, di una voglia di innovare e di imporsi, tipicamente battistiana. Concepire l’arte come qualcosa di creativo, come artefici di una realtà che sino ad allora non c’era, almeno non in questo modo, non miscelata così. Seguirà nel maggio 2003 “La moda del lento”, con un primo videoclip, “Love affaire”, anche se l’album precedente ne aveva prodotto uno su “Le vacanze dell’ottantatrè” alquanto artigianale.

Nel 2005 esce “La Malavita”, racconti del “male di vivere” sospesi tra rock, Gainsbourg  e musica d’autore e soventi richiami a colonne sonore dei polizziotteschi italiani. Costante sempre presente nei dischi dei senesi quello di rifarsi al cinema, non solo musicalmente, talvolta quasi ispirati da Ennio Morricone.  Anche grazie ai singoli con relativi videoclip “La guerra è finita” e “Un romantico a Milano” sarà il primo vero successo di pubblico, ottenendo il disco d’oro.

Seguirà nel 2008 “Amen” , anticipato da “Charlie fa surf” e seguito dal videoclip “Baudelaire” e sarà la vera consacrazione del gruppo, che si imporrà in maniera massiccia e penetrante, componendo anche alcuni pezzi e la colonna sonora del film del 2009 “Giulia non esce la sera”, di cui memorabile è il pezzo “Piangi Roma”, videoclip girato da Bianconi assieme a Valeria Golino, protagonista femminile del film.

Con il singolo “Gli Spietati”, il cui videoclip rimanda ad atmosfere artistiche alla Andy Warhol, ed il cui titolo è preso dal celebre film di Clint Eastwood, esce il quinto album, “I mistici dell’Occidente“. Il successo è tale che sarà ristampato il rarissimo Sussidiario con uno speciale “Cofanetto” a tiratura limitata.

Sempre frutto della passione per il cinema, in particolare in questo caso per il genere Horror, nel 2013 esce il nuovo album “Fantasma”, strutturato proprio come un film, primo tempo, intervallo, secondo tempo, titoli di coda.

A partire da subito, dal Sussidiario, il discorso dei Baustelle sembra riprendere quello interrotto da Battisti nel ’94 con Hegel, stessi ritmi adolescenziali, quasi come se l’intera produzione, tutti gli album, fossero un prosieguo tacito dell’attività di ricerca, ponendosi nell’ottica delle “studentesse e gli studenti/rapinatori del momento d’oro/consumassero un lusso di moine”. C’è “Gomma”, intarsio di parole pensieri ed allucinazioni fantastiche, la rimembranza nella sua essenza disturbata ed alternativa, ove si miscela memoria e fantasia, luoghi dove alberga il vero, dove il reale è costretto a cedere il posto alla verità e la verità designa un nuovo senso, ove il passato diviene futuro ed il presente è l’unica possibile verità, l’attimo, il quam minimum credula postero, l’eterno presente di una eterna adolescenza, essendo la mente stessa non fissata e marmorizzata ma fluida non nel suo divenire ma nel suo essere hic et nunc. Un pezzo che sugella la fluidità dell’istante. “Le vacanze dell’Ottantatrè”, altra rimembranza, ma qui la musica non è ininterrotta ed incessante come ne “La voce del viso” ed in “Gomma”, ma quasi lontana, da de ja vu, come se si volesse afferrare un ricordo e questo sfuggisse dalle mani, una realtà dipinta e chiara eppure proprio per questo lontana e già vissuta. “Martina” è la ragazza dal “miele infinito per anima” cole i che crescendo, come si dice in “Mademoiselle Boyfriend“ dell’album successivo si “innamorerà di cose più importanti” e che nella sua risata tradirà, tradirà tragicamente fino alla morte dell’amato “anche tu mi tradirai/un rasoi inciderà/le mie vene/ora ridi/dietro lenti scura riderai” la sua alterigia ribelle è la donna maledetta, la ragazzina che con tutti i suoi dubbi, incertezze e sofferenze diviene comunque per l’incauto amante terribilmente una femme fatale ma che, comunque, e qui c’è la luce nel nulla ha “per calvario un angelo”. C’è poi la descrizione di “Noi bambine non abbiamo scelta”, simile a quella che ne “La Malavita” sarà “A vita bassa” e ne “I mistici dell’occidente” “La bambolina”. Il nichilismo dell’adolescenza, i falsi miti, cantanti, attrici, modelle, che conducono a compiere scelte alternative per idolatrare un modello di vita fuggevole, alla ricerca del “mon petit Verlaine” che scrive “sulla bocca/le parole che non posso dire/quando piango in questo mondo stupido” e che in “A vita bassa” porrà un vero e proprio confronto generazionale nel dialogo tra Monica, che cerca valori nei vestiti di marca consapevole del fatto di non poter avere personalità in quanto la stessa possono permettersela “solo una piccola elité”, ed il professore. “La bambolina”, infine, vittima della anoressia per seguire altri falsi valori, sognando di essere come una modella. E qui c’è una stupenda invocazione al “Cristo delle peggio borgate” a che “bruci la modella smagliante/sul cartello gigante”, in una visione salvifica della ragazza che resti, comunque, se stessa.  In” Love affaire” c’è di nuovo il tema della rimembranza, la ricerca di una ragazza del passato, di un amore perso, perché innocente, del primo amore, quando dall’innocenza si passa alla maturità e c’è un idillio quasi arcadico, una lei scomparsa, presente solo nella sua mente, accordi a circolo ritornante, il “where are you now” è malinconico, non solo perché si è consapevoli che tra  l’amore idilliaco di gioventù e quello attuale e corporale, sicuro, facile, forse troppo, c’è un baratro, ma soprattutto per la consapevolezza che, così come è cambiato il dicente è cambiata anche la ragazza del passato, viva solo come essenza fugace nella memoria. Rachele Bastreghi nel 2015 pubblicherà un album da solista, “Marie”, vero e proprio vortice del ricordo,  ed in “Senza essere” sarà ripreso un tema analogo, questa volta dal punto di vista femminile, un ritorno a tempi passati, ad un amore ormai finito, concepito ora in una dimensione matura, consapevoli che, quando si era felici, lo si era perché mancava la consapevolezza di sé, si affrontava la vita con più leggerezza, “vivevamo senza essere” appunto. La Canzone del Parco è un tragos vero e proprio, c’è la cronaca dei giovani amanti, che si incontrano, si scambiano i primi baci, sono davvero “sinceri/se dicono/ti voglio bene”. Dall’altro c’è il Parco, che si sente inutile, che è immortale ma che può respirare solo di questi giovani amori senza poterli mai vivere. Un vero  mito, come quelli greci, la divinità che guarda il mondo dall’alto ma invidia gli umani perché vivono, e come direbbe Eraclito “Gli dei sono uomini immortali, gli uomini dei mortali”. “La Canzone di Alain Delon” ed “Il sottoscritto” appartengono ancora alla sfera della memoria, ambedue ritratti di giovani falliti e mai cresciuti, che tuttavia hanno dentro di sé qualcosa di inestimabile, l’unica cosa che per loro conta, la bellezza del mondo e lo squallore del mondo, un contrasto che li rende speciali seppur maledetti. Maledetti come “lo scrittore in mare/lasciami affogare/lasciami una bibita al terrore/il poeta affonda e non si ferma mai”, un altro essere umano che non crede nell’amore, come andava di moda dire nel secondo lustro degli anni 2000, perché è deluso, e come Anna de “Il liberismo ha i giorni contati” “non è più eccitato dal sesso orale”, ma vede solo la distruzione di questa società occidentale in cui “essere depressi dura solo pochi attimi” ed il liberismo “non è peccato/e non è Marx ed Engels” a distruggerlo ma muore per “autoconsunzione” come “un ragazzino in agonia”. Stessa sfiducia presente in “Nessuno”, ove la/il dicente afferma “non credo al mercato produce demenza/così come è falsa la beneficenza/diffido del saggio e di quello che sa” gettando in pochi versi all’aria tutto l’occidente esordendo con “non credo alla bibbia/mi chiedo perché/ dovrei consultarla/offende gli dei”. E la presenza di queste disturbate creature, di queste divinità, è presente ovunque, nel Parco della omonima canzone, in Martina ove c’è per calvario un angelo, in La bambolina ove troviamo “il Cristo delle peggio borgate/delle vite sprecate”. Ed è citata più volte in altri pezzi come in Darkroom “vorrei gli dei/quaggiù/così rinascerei/senza guai”, o in “Gli spietati” “c’è un amore che non muore mai/ più lontano degli dei/a sapetelo spiegare che filosofo sarei”.

Sono presenti queste divinità umane, in un’ottica anche qui panpsichista, il Parco, i miti degli adolescenti, gli angeli, ne “La vita va” c’è “un mondo delle idee”, iperuranio insomma o giù di lì. Divinità con vizi e difetti umani, con sentimenti umani, quasi come se fossero un ritorno a qualcosa di nuovo, anzi d’antico. Una nuova via di salvezza. Perché sono divinità-personaggi dello spettacolo per gli adolescenti, ma non solo, anche essenze mistiche. Forse intuendo che adolescenti e post adolescenti sono gli unici che credono ancora in qualcosa di mistico, non solo nei divi, ma in un non so che di sovraumano, o oltreumano, in qualcosa di diverso dal destino, in una luce che illumina i loro squallidi orizzonti. Creature maledette bramano l’infinito, perché è nell’abisso più profondo, nel gelo terribile, nell’orrore che fa tremare le vene ed i polsi che si crede, perché “è necessario credere/bisogna scrivere”. Giunti alla maturità, poi all’età adulta, nessuno crederà più, neanche molti religiosi, in tutt’altro fare affaccendati concepiranno il divino come qualcosa di esistente ma non presente, forse non necessario alla routine di tutti i giorni. Si finisce col credere in Dio quando si è miseri come le creature di Dio, assurgendo la luce ad una speranza intima. Chi è ai margini non ha bisogno di credere nella divinità perché non solo sa che esiste, ma perché la assapora, sia in maniera fanciullesca, sia, soprattutto, in maniera profondissima.

E forse proprio dal 2000, tra gli adolescenti, poi giovani, c’è un desiderio maggiore e più sentito di spiritualità, il crollo del comunismo, il fallimento dello stesso nichilismo, la materialità desiderata ma letta spesso in una ottica aleatoria, la diffusione dell’eterietà, prima con i telefonini, poi con internet, smart-phone ed annessi e connessi. È iniziato e magari si realizzerà un nuovo spiritualismo quasi medioevale, un nuovissimo modo di concepire l’essere umano, sfiduciato dalle grandi religione, attirato dall’etereo, da un misticismo più puro, da credenze new age, da modi di interpretare la realtà e la materia in maniera simbolica, allegorica, come i sapienti dell’età di mezzo-vedi complottismo, teoria del complotto, dietrologia ma anche ritorno al panteismo, al veganesimo, alla cura dell’ambiente, al vivere in simbiosi con la natura-.

D’altronde dal 2001, ci sembra evidente, è cessata l’età Contemporanea e si è dato avvio a quella “Cibernetica”. L’era del Materialismo, iniziata ai primordi del ‘600 sembra volgere al termine, ne inizierà una nuova consci che il Mondo, così come lo conoscevamo, è finito. Non c’è dal 2001 evoluzione alcuna, anche i passi da gigante fatti dalla tecnica nell’ultimo decennio erano già disponibili e proponibili ad inizio secolo, magari non su scala commerciale, ma comunque nessuna evoluzione si presenta innanzi ai nostri occhi. Né tantomeno, dopo il Postmodernismo si ritrovano altri “ismi” capaci di dare spazio e dimensione all’essere umano ed alla natura. Siamo dinanzi ad un’epoca di transizione ma non sappiamo transigere. Ecco qui, per evitare una deriva di amore del feticcio e di relativismo spirituale, l’importanza dell’arte, regina di tutti le possibili sapienze umane e motore che muove la scienza stessa, la filosofia, e le altre discipline. Queste stanno assumendo una carenza di contenuto e sorge la necessità di proporre forme nuove a che l’estetica rinasca e con essa la vita, dalla Bellezza, tramite la contemplazione. E noi, per crescere, per fare il passo in avanti, per rompere le vetrate della nostra prigione e sgusciare via come fanciulli, dobbiamo cercare questa Bellezza, vivere per essa, cercarla in ogni arte e mestiere a che l’uomo e la natura non si inaridiscano, a che vi sia intuizione, serenità, godimento, temperanza, gloria, amore. Ma soprattutto grazia, la grazia è la virtù massima dell’essere umano. E la poesia, manifestazione estetica somma in quanto imprescindibile dalla musica, può e deve aprire l’animo, predisporlo all’ascolto del sussurro d’infinito, perché “l’amor che move il sole e l’altre stelle” è musica, è Dio manifesto. La musica è l’arte per eccellenza e gli esempi a sostegno di tale visione risultano da pensieri condivisi da gran parte della tradizione esoterica, neoplatonica, caldaica, alessandrina, pitagorica, gnostica, catara, provenzale e, perché no, anche giudaico cristiana. Ricordiamo che lo scopo ultimo del credo cattolico come di quello scismatico ed eretico si poggia sulla contemplazione dell’empireo e della sostanza femminile di Dio riscontrabile nella Candida Rosa o, che dir si voglia, nella Rosa Mistica. E’ evidente tuttavia la triplicità della visione femminile, triplicità che da secoli è stata scissa ma che conduce, tuttavia ad un’origine indivisa. Quella di donna Madre, senz’altro presentissima in culture anche paleolitiche, la classica Venere gravida o la Santa Madre, quella di donna angelo ispiratrice, riconducibile probabilmente a Lilith, e quella di genitrice della divinità ed assunta a sostanza non pienamente umana e non pienamente divina, tipico della Santa Madre. Una nuova coscienza, un nuovo ascolto delle sinfonie delle sfere celesti può e deve spingersi a mutare, a diventare esseri trini in corpo, spirito e anima, a che l’anima, nostra auctoritas, dall’ascolto musicale si manifesti, attraverso la fisicità nostra corporale, come potestas spirituale.

Ed anche in questo Battisti, con “Anima Latina” e con i Cinque bianchi, e non solo, lo aveva, artisticamente parlando, intuito. Ed è anche questa la ragione della immortalità del suo genio.

Giovanni Di Rubba

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