Saviano: in scena “Storia strana su di una terrazza romana”

arci2“Storia strana su di una terrazza romana” di Luigi De Filippo, è stata proposta dal gruppo teatr@Arci di Saviano, per la regia di Felice Falco. In scena le vicende di una strampalata famiglia partenopea alle prese con una, davvero “Storia strana”.

Nel 1973 lo spettacolo teatrale, appena scritto, debuttò in un teatro romano e a metterla in scena fu una coppia d’eccezione: Luigi De Filippo con il padre, Peppino. La storia è quella di un cane che parla con linguaggio umano! Se il teatro è lo specchio fedele della realtà, si nota, da subito, che ciò è un eccezione non riscontrabile, assolutamente, in alcuna realtà! La storia, è ovvio, è intesa come metafora: il cane è la nostra coscienza che vorremo mettere a tacere, senza mai riuscirvi, quando, con voce imperiosa, ci rimprovera.

Una coscienza che indica quel momento della presenza alla mente, della realtà materializza sulla quale interviene la cognizione che le dà senso e significato: una precisazione dovuta per cercare di capire la trama. Pur raggiungendo quello stato di conosciuta unità di ciò che è nell’intelletto la storia scenica si allontana da essa. In breve interviene il termine soprannaturale che può riferirsi a qualsiasi fenomeno che vada, o che si presume andare, oltre l’ordine della natura con le leggi tangibili. Più in specifico, nell’ambito ristretto a determinati ambiti, può riferirsi a vari enti che sconfinino oltre la natura umana. È evidente che sono pertanto non conoscibili attraverso le sole facoltà sensibili.

È in questo gioco di concetti, tutt’altro che semplici, che si dibattono i protagonisti. Sono essi stessi delle manifestazioni che sfuggono alle leggi naturali. Ed è quello che si verifica nella nostra storia. Al divino sono tradizionalmente legati i concetti escatologici di aldilà, per indicare una condizione di continuazione dell’esistenza ma un cane che abbia voce e carattere umano “non è una cosa strana ma assurda!”. Quest’ultima affermazione è quella relativa di un personaggio come un prete chiamato nel ruolo di mediatore in quella intricata vicenda. I personaggi si trovano imbattuti in quel raggiungere ed essere consapevoli, scoprire in profondità; quel conoscere che indica la consapevolezza che la persona ha di sé e dei propri contenuti mentali: è il caso della cameriera; anche lei come tutti costretta a far i conti col cane, ovverossia con il proprio io; è il caso di uno pseudo ispettore di polizia privata che fugge precipitosamente di fronte al quel proprio io, indecifrabile, soprannaturale.

In questo senso il termine coscienza viene genericamente assunto non come primo stadio di apprensione immediata di una realtà oggettiva, ma come sinonimo di consapevolezza. In quest’opera teatrale vi è una vaga concezione stoica presentata come occasione ideale per tutti gli uomini saggi di cogliere la verità. Una famosa citazione affermava: “Non uscire da te stesso, rientra in te; nell’intimo dell’uomo risiede la verità”. Bisogna pur precisare che l’intelletto, nelle sue varianti, non offre nulla in termini di una fondata interiorità individuale che sia comparabile con la rappresentazione dell’anima. Essa è radicalmente personale e tesa in rapporto costitutivo, che non appartiene né alla narrazione della storia scenica e neanche alla dimensione teologica. “È la consapevolezza di un sentimento di moralità”. In queste parole il senso della commedia per cui si dice che la coscienza dimostra, intercetta, persuade, come pure accusa, tormenta e riconquista. E tutto ciò proviene dall’applicazione di una nostra consapevolezza o istruzione dei nostri comportamenti.

Tutti ingredienti che si ritrovano, da un attento esame, in quest’opera e dei suoi personaggi. E’ il caso di uno pseudo seduttore di cognome Vastola oppure di un farmacista che di tutto quanto accennato è un versato e studioso ricercatore. Più specificamente: il riscontro positivo di critica e di pubblico decretò sin da subito il pieno successo di questa vivace commedia che, venne riproposta negli anni sempre con edificanti risultati. Una dimostrazione di una longevità. Certo grazie, probabilmente, a quella caratteristica di riuscire a parlare al pubblico con un linguaggio semplice, in cui ironia e riflessione si intrecciano in un accorgimento perfetto. La terrazza della casa diventa metafora di una condizione tipica della napoletanità in cui il confine tra pubblico e privato, tra condiviso emesso da parte, appare molto labile.

La terrazza pur essendo un articolazione dell’abitazione, barriera della propria intimità, rappresenta nel contempo un ponte con l’esterno e con l’incontrollata confusione. In questo la scenografia è particolarmente indicativa e ridotta all’essenziale nel suo mobilio di color bianco. All’interno di essa si raccolgono le bizzarre storie della famiglia dell’ex pasticciere Federico Soriceruolo, affidato a Peppe Tufano, ancora alle prese con i propri non attenuati istinti lusingatori e per questo motivo ininterrottamente in contrasto con la moglie Dolores, interpretata da Mariateresa De Stefano. Quest’ultima estenuata è per certi versi in preda ad una perenne crisi incontrollata. Realizzano il quadro di questo strampalato nucleo familiare la figlia Valeria interpretata da Giusy De Sena, sposata con il visionario Luciano ruolo affidato a Giovanni Aliperti. Una vicenda che parte da un equilibrio già di per se instabile e che viene messo totalmente in crisi dal fatto che Luciano sostiene che il cane di casa, di nome scugnizzo, gli parli quotidianamente! Il dato che parlare potrebbe esser fine a se stesso, in quel linguaggio c’è il confessare tutti i segreti dei componenti della famiglia e non solo ma dell’intero quartiere.

L’imbarazzo del constatare che i fatti raccontati dal presunto “cane parlante” risultino veritieri, scaraventa nello scompiglio, spinge in un abisso l’intero assetto familiare con conseguenze per certi versi esilaranti. L’immagine che viene trasmessa al pubblico viene riproposta con ironia ed intelligenza proponendo in tutta la sua evidenza le più nascoste irrisolutezze umane. Al di là dell’interpretazione per rendere credibili situazioni al limite del paradosso, la commedia ha in se una efficienza inconsueta, che vuol conciliare una mal celata naturalezza. La rappresentata commedia dalla Compagniateatr@Arci, ha inteso dare con eguale dose di verità e di poesia, la rappresentazione comica, stravagante, angosciosa, della famiglia in generale. “Essa stessa un eterno teatro! Come nella vita vera, i protagonisti sono veri, anche se trasportati in un mondo surreale”. Come diceva lo stesso autore: “Ma quando i giovani si arrendono troppo facilmente al grigiore di una vita senza entusiasmi e senza ribellioni, è una fortuna se interviene il soprannaturale a ricordarci il nostro diritto, a reagire ed anche a sbagliare pur di cercare di migliorare la nostra condizione umana”.

Completano il quadro degli attori: Antonio Romano, Salvatore Tufano, Giovanni Falco, Michele Falco, Carmela Cassese, Giusy Rita, Aliperti, Brigida, Simonelli e infine Enzo Mauro. Nell’epilogo del racconto determinate scene sono accompagnate dalla musica dal vivo, della sola chitarra di Roberto Petrella, esattamente brani come “The Mission – Gabriel’s Oboe” di Ennio Morricone e “L’istrione”, brano portato al successo anche da Massimo Ranieri, Renato Zero e ovviamente da Charles Aznavour, considerato il “Frank Sinatra della Francia”. Quel cane che comunica facendosi intendere nel mondo umano, nel finale, verso la chiusura definitiva del sipario, smette, momentaneamente di parlare. Su di quella terrazza gira tutto un mondo ed ora è di scena la ritrovata tranquillità! Sembra la fine di un turbamento! Ma è in agguato il colpo di scena che non si aspetta! Quasi fosse una follia contagiosa, il parlare del cane, il suo modo umano di farsi comprendere, passa da un personaggio all’altro! Come dire l’incubo continua!

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