Novantacinque anni, e ancora gli brillano gli occhi quando racconta la sua epopea di comandante partigiano a capo di un gruppo delle brigate di “Giustizia e Libertà”, in Valtellina, nella provincia di Sondrio, Gennaro riceverà stamattina dalle mani del Prefetto di Napoli, Gerarda Pantalone, l’ennesimo riconoscimento alla lotta che lui, assieme a tanti altri giovani italiani, intrapresero all’indomani dell’armistizio, l’otto settembre 1943, per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti.
«Il Signor Ministro della Difesa» recita la missiva che qualche giorno fa lo ha raggiunto nella sua casa di via Nazionale, a Boscotrecase «le ha conferito la “Medaglia della Liberazione” commemorativa del settantesimo anniversario della lotta di Liberazione».
Con ogni probabilità, Gennaro Inserviente è l’ultimo dei partigiani campani ancora in vita. Comandante di un gruppo delle brigate di “Giustizia e Libertà”, vigile urbano nella vita civile, ricorda con lucidità come l’otto settembre 1943 gli cambiò la vita trasformandolo da sergente maggiore autiere dell’esercito italiano in uno tra i più importanti capi partigiani delle squadre che combatterono nelle valli della provincia di Sondrio.
C’era sempre uno di noi di vedetta pronto a segnalare l’auto nera del gerarca. La mattina del terzo giorno, verso le nove, venni avvisato da uno dei miei che stava arrivando una macchina. Ci piazzammo sui lati della strada nascosti da una siepe; quando l’auto fu a circa venti metri da noi scattammo fuori per fermarla, ma questa ci sorpassò ed allora diedi l’ordine di sparare fin quando, dopo una cinquantina di metri, ridotta quasi a un colabrodo, la macchina dovette fermarsi. Ci accostammo con le armi puntate; dentro l’auto però non trovammo Pavolini ma l’industriale tessile Felice Fossati».
Il venticinque aprile del 1945 la squadra di Inserviente contava circa un centinaio di partigiani. Con loro vennero messe in atto importanti azioni contro i tedeschi e le Brigate nere di Pavolini. Come quando i repubblichini, aiutati da spioni della zona, iniziarono a prendere in ostaggio i familiari di alcuni partigiani e li consegnavano al comando tedesco per deportarli in Germania.
Ricorda, ancora, dei tedeschi che fucilavano gli ebrei, della fame sofferta, della ritirata, della fuga in Svizzera e del tentativo di rientrare a Boscotrecase prima di decidere di «salire in montagna» e continuare a combattere con i partigiani. E con gli occhi lucidi, rammenta di quando ritornato in Valtellina, nei paesini dov’era stato partigiano, alla ricerca degli amici di allora, rivolgendosi a una donna del luogo per chiedere un indirizzo, si senti rispondere «Ma tu sei Gennaro, il napoletano? Di te parla ancora tutta la valle».
«Si vede che avevo lasciato un buon ricordo di me e dei miei uomini» dice, mentre guarda le medaglie e le foto fatte con i suoi “ragazzi”. Settanta anni fa. Una vita.
Carlo Avvisati