“Il Tesoro di Boscoreale” di Carlo Avvisati, saggista e giornalista de “Il Mattino”, svela tutti i particolari sulle vicende che alla fine del 1800 videro il rinvenimento, l’espatrio e la vendita a Parigi degli argenti, dei gioielli e delle monete d’oro trovate da Vincenzo De Prisco, notabile boscorealese, in un fondo di sua proprietà: la villa rustica d’epoca romana detta “la Pisanella”.
Una faccenda ingarbugliata, quella vendita, che, sulle ali dello scandalo, arrivò persino in Parlamento per opera di Benedetto Croce e Giovanni Bovio che, senatori del Regno, chiesero conto all’Assemblea Nazionale di quell’orribile misfatto perpetrato al patrimonio culturale e storico italiano. La “fuga”, inoltre, causò le dimissioni del Soprintendente archeologo di Napoli, Giulio De Petra e fece scattare indagini prefettizie e inchieste sull’operato di Vincenzo De Prisco.
Il tesoro era costituito da 108 stupendi pezzi d’argento, finemente cesellati, il cui peso è pari a circa 30 chilogrammi, sette in più del tesoro d’argenterie del Menandro, trovato a Pompei; da otto pezzi d’oro: una collana a due catene, ciascuna lunga 1,5 metri; due orecchini con castoni; un anello; quattro bracciali: due serpentiformi e due a semisfere, e 1350 monete d’oro, fior di conio, raffiguranti gli imperatori da Augusto a Domiziano. Il colore “caldo” dell’oro monetale, dovuto alle ossidazioni causate dai gas bollenti espulsi durante l’eruzione del 79 d.C., secondo alcuni numismatici, viene utilizzato per descrive una “simile colorazione su qualsiasi oro romano“.
Nel libro, oltre agli ori agli argenti e alle monete, vengono dunque descritti, con dovizia di particolari, i fatti che videro anche l’espatrio e la vendita delle argenterie colà rinvenute. Per il tesoretto monetale, costituito da denarii e un quinario, il saggio stabilisce con certezza il numero di monete rinvenute nella villa che pertanto, e su indicazioni dello stesso Canessa, risulta pari a 1350 monete d’oro. Altro dato interessante delle monete è il numero conii avvenuto sotto Nerone che prevale di gran lunga su quello di altri imperatori.
Il valore intrinseco dei denarii, senza dubbio il più consistente quantitativo di aurei giammai rinvenuto in area vesuviana, era pari a circa 30 mila franchi francesi del 1900 e nel I secolo d.C. raggiungeva i 100 mila sesterzi. Altra particolarità dei denarii rinvenuti, ben 117 tipologie differenti di conio, e che nessuno di essi risulta battuto nel 79 d.C.; le monete coniate in un periodo prossimo all’eruzione datano al 78 d.C.. Da considerare anche l’ottimo stato di conservazione dei pezzi battuti sotto Galba, Otone e Vitellio.
Il saggio è riccamente illustrato con foto d’epoca e con immagini inedite dei personaggi che furono artefici del rinvenimento e della compravendita.
In particolare, per la prima volta viene pubblicata la foto di Cesare Canessa, l’antiquario napoletano che con i fratelli Ercole e Amedeo era proprietario di case d’asta a Parigi e New York, oltre che a Napoli, che fece da intermediario con i funzionari del Louvre e con il barone Edmond De Rotschild che acquistò le argenterie per donarle al museo parigino. In questo Museo, in una vetrina che occupa una buona parte dello spazio disponibile nella sala, Gli argenti: coppe, bicchieri, piatti, posate, fanno bella mostra testimoniando la maestria degli orafi romani nel I secolo d.C. e indicano quanta ricchezza era conservata in una delle ville (c’era persino un impianto termale che forniva acqua alla temperatura desiderata a chi faceva il bagno nella vasca), rustiche e di otium, che duemila anni fa occupavano le prime balze del Vesuvio, ovvero quel territorio che per la sua felice posizione venne indicato come il Pagus Augustus Felix Suburbanus, area oggi di pertinenza della cittadina di Boscoreale.