Alla fine Almaviva chiude i battenti; via da Napoli e Roma

almavivaNel procedura dell’AlmavivA di “riduzione del personale, all’interno di un nuovo piano di riorganizzazione aziendale” sono rientrate anche le sedi di Roma e quella di via Benedetto Brin in Napoli. Con la chiusura dei due siti produttivi, è conseguita una riduzione del personale che ammonta a 2.511 teste. 1.666 riferito al personale della Capitale, il resto a quello di Napoli. Incerte le sorti dei lavoratori. Delusi dallo svuotamento improvviso degli accordi fissati quattro mesi fa dai sindacati e dall’azienda.

Non hanno avuto esito positivo gli incontri tenutisi a Palermo dei dirigenti dell’AlmavivA Contact con i sindacati riguardo ai trasferimenti collettivi del personale proprio palermitano in Calabria e lì era spuntata l’ipotesi di una riorganizzazione dell’azienda. Gli incontri con i sindacati, che vedevano nei trasferimenti una illegittimità nonché la possibilità di un “licenziamento mascherato” da spostamento, hanno seguito un periodo si malcontento dopo che a Palermo, Roma e Napoli, si raggiungeva il 31 maggio l’accordo secondo cui i lavoratori sarebbero stati impiegati con contrattualizzazione a solidarietà fino a novembre. Il 12 ottobre sarebbe dovuta tenersi una convocazione con le parti sociali voluta dalla viceministra Bellanova che segue la vicenda.

 

La nota di oggi dell’azienda, però, rimette tutto in discussione, anzi, getta di nuovo nello sconforto migliaia di lavoratori e sembra quasi certificare il “fallimento” delle trattative ministeriali di quattro mesi fa. La chiusura dei due siti sarebbe motivata dalle perdite medie mensili di Roma e Napoli “nel periodo successivo all’accordo del 31 maggio (giugno-settembre 2016), nonostante l’utilizzo di ammortizzatori sociali, le perdte sono pari a 1,2 milioni di euro su ricavi mensili pari a 2,3 milioni di euro. Il piano coinvolge il 5% del personale attualmente in forza al gruppo a livello globale”. Confermato, inoltre, per la sede di Palermo, il trasferimento di quasi 400 operatori a Rende, in Calabria, a causa della dismissione da dicembre di una commessa Enel.

 

L’azienda punta il dito contro “il rifiuto da parte dei sindacati di sottoscrivere lo specifico accordo sulla gestione di qualità e produttività individuale, impegno centrale e condiviso come vincolante in sede d’intesa, che nega inspiegabilmente una fondamentale leva distintiva per la qualificazione dell’offerta ed il progressivo riassorbimento degli esuberi”.

A ciò, l’azienda aggiunge che il clima di mercato è “in costante deterioramento che rimane assoggettato ad inalterati fenomeni distorsivi, senza registrare gli effetti delle iniziative di riordino dichiarate. Come dimostra, nonostante chiare leggi dello Stato che rimangono inapplicate, l’incontrollato aumento delle attività delocalizzate in Paesi extra Ue: sulla base dei dati ufficiali dell’Instat albanese, nel 2015 è raddoppiato il numero dei call center che lavorano per il mercato italiano con oltre 25 mila posti di lavoro”.

Per i sindacati si tratta di una decisione aziendale “scellerata, palesemente in violazione dell’accordo” della scorsa primavera. “Le motivazioni addotte dall’azienda sono palesemente pretestuose e strumentali: è evidente l’assoluta inconsistenza delle presunte inadempienze sindacali quali causa della spregiudicata determinazione aziendale. Siamo di fronte a un’autentica provocazione nei confronti delle Organizzazioni Sindacali e del Governo, nonché di una volgare forma di intimidazione nei confronti dei lavoratori”, scrive in una nota Massimo Cestaro, segretario generale Slc Cgil.

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