“Guai a chiamarli pupazzi!”. È l’avvertimento di Gherardo Noce Benigni Olivieri, appassionato del mondo del presepe napoletano e responsabile dei pastori in legno e terracotta che, i prossimi 5 e 6 dicembre, verranno battuti presso la casa d’aste Arcadia, a Roma. Evento più unico che raro, almeno tra i confini capitolini. “Figlio dell’illuminismo e del verismo settecentesco, – ha spiegato Olivieri – il presepe napoletano cresce influenzato dal tema del sacro e, allo stesso tempo, del profano. Come un figliol prodigo che lascia le sue radici liturgiche attratto dal richiamo dell’edonismo, per poi tornare sempre sotto il tetto di paglia delle sue natività. Motivo per cui è ancora oggi estremamente difficile imbattersi in presepi napoletani tra le mura delle chiese più tradizionaliste: molto più facile ammirare natività fedeli al modello presepiale presentato per la prima volta da San Francesco a Greccio, nel 1223, composto dal classico schema madre, padre, bambinello, bue e asino.
Il panorama entro cui si estende il presepe napoletano, al contrario, è molto più vasto. A Napoli, la piccola Betlemme si trasforma nel punto di incontro di tutto lo scibile umano, espresso non solo mediante pastori, ma anche grazie all’introduzione di accessori vari e animali esotici. I pastori napoletani ci dicono molto su come l’abbigliamento degli abitanti delle due Sicilie di differenziasse per ceto e per censo. E non solo. Con le figure della vecchia trigozzuta e dello scartellato, gobbo e dinoccolato, gli artisti campani tentavano di dare sfoggio della loro conoscenza degli handicap e delle deficienze fisiche umane. Il presepe napoletano è la chiave di lettura più universalmente accessibile della Enciclopedie dei coevi Diderot e D’Alembert.
Non a caso, la Napoli del diciottesimo secolo era solita ospitare ambascerie, provenienti da ogni angolo della terra, pronte a omaggiare i Borbone con doni esotici e variopinti, che puntualmente venivano trasmessi alla cultura presepiale.
L’aspetto scenografico è un altro elemento per cui le natività e i pastori napoletani presenti in Arcadia si distinguono da ogni forma di presepe più tradizionale. I gentiluomini campani dell’epoca, infatti, si divertivano ad esporre i propri presepi e, addirittura, a gareggiare per la spettacolarità dei propri capolavori, come forma di puro divertissment pascaliano. Per concludere, mi rifaccio alle parole del suddetto Gherardo Noce: ‘Osservare un presepe napoletano del Settecento da sempre vuol dire immergersi in un intricato composto di scene e figure che si susseguono come per magia, i pastori si mostrano uno per volta e nel momento in cui crediamo di aver notato anche il più piccolo particolare o il pastore più nascosto, ecco che ne compaiono improvvisamente altri, ed altri ancora’”.