Il panorama entro cui si estende il presepe napoletano, al contrario, è molto più vasto. A Napoli, la piccola Betlemme si trasforma nel punto di incontro di tutto lo scibile umano, espresso non solo mediante pastori, ma anche grazie all’introduzione di accessori vari e animali esotici. I pastori napoletani ci dicono molto su come l’abbigliamento degli abitanti delle due Sicilie di differenziasse per ceto e per censo. E non solo. Con le figure della vecchia trigozzuta e dello scartellato, gobbo e dinoccolato, gli artisti campani tentavano di dare sfoggio della loro conoscenza degli handicap e delle deficienze fisiche umane. Il presepe napoletano è la chiave di lettura più universalmente accessibile della Enciclopedie dei coevi Diderot e D’Alembert.
Non a caso, la Napoli del diciottesimo secolo era solita ospitare ambascerie, provenienti da ogni angolo della terra, pronte a omaggiare i Borbone con doni esotici e variopinti, che puntualmente venivano trasmessi alla cultura presepiale.
L’aspetto scenografico è un altro elemento per cui le natività e i pastori napoletani presenti in Arcadia si distinguono da ogni forma di presepe più tradizionale. I gentiluomini campani dell’epoca, infatti, si divertivano ad esporre i propri presepi e, addirittura, a gareggiare per la spettacolarità dei propri capolavori, come forma di puro divertissment pascaliano. Per concludere, mi rifaccio alle parole del suddetto Gherardo Noce: ‘Osservare un presepe napoletano del Settecento da sempre vuol dire immergersi in un intricato composto di scene e figure che si susseguono come per magia, i pastori si mostrano uno per volta e nel momento in cui crediamo di aver notato anche il più piccolo particolare o il pastore più nascosto, ecco che ne compaiono improvvisamente altri, ed altri ancora’”.