Sul territorio tedesco, insomma, da anni sarebbe massiccia la presenza e gli interessi economici dei D’Alessandro, cosca dalla spiccata propensione “imprenditoriale” voluta dai vertici: il clan, dopo faide e decine di arresti, si è sempre ripreso proprio grazie al potere dei soldi e al fatto di sapere dove cercarli. I camorristi hanno continuato ad “affossare” Castellammare approfittando della crisi economica e delle difficoltà di imprenditori e famiglie: estorsioni, pizzo chiesto in tutte le sue forme, per poi puntare tutto sul mattone e sulle attività commerciali “rigenerate”.
Un modus operandi vincente che è stato esportato in numerose regioni d’Italia e in mezza Europa, dove le
Nella storia recente gli interessi di Scanzano in Germania sono saltati fuori nell’inchiesta denominata “Sigfrido”, il cui processo ripartirà a breve dopo che la Corte di Cassazione nel 2010 ha annullato per dei cavilli procedurali la sentenza di secondo grado contro il gotha dei D’Alessandro. Si tratta di fatti risalenti alla seconda metà degli anni ’90 (il processo è iniziato in primo grado nel 1999). Fatto sta, comunque, che l’inchiesta porta il nome dell’eroe epico le cui gesta sono raccontate nel poema tedesco “Il Canto dei Nibelunghi” proprio per sottolineare la massiccia presenza dei D’Alessandro in Germania. Altro collegamento è presente nell’inchiesta “Golden Gol” incentrata su calcioscommesse e partite di calcio truccate: la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli ha inserito qualche anno fa in una lista di episodi sospetti un match tra Bochum e Energie Cottbus, su cui anche la Uefa ha aperto un’inchiesta.
Oltre alla Germania, però, i D’Alessandro ed altri sodalizi criminali dell’area stabiese opererebbero anche nell’Europa dell’Est. Due estorsori dei D’Alessandro nel 2015 sono finiti in manette per avere chiesto una tangente ad un imprenditore che aveva deciso di acquistare in Romania una grande azienda agricola. A maggio 2014, invece, a Calarasi, una località a circa cento chilometri da Bucarest, è stato arrestato un esponente del clan “Cesarano”, parente del boss Ferdinando Cesarano, la cui roccaforte si trova nel rione “Ponte Persica” a cavallo tra Pompei e Castellammare di Stabia. Poi c’è un caso che proprio nei giorni scorsi ha scosso l’opinione pubblica a Bucarest, ovvero un incendio che ha provocato trentotto feriti e che ha interessato una delle discoteche più grandi e famose d’Europa: tra i titolari, tutti di origine stabiese, c’è anche una persona imputata nell’ambito del processo Sigfrido. Sul rogo, di origine dolosa, stanno indagando le autorità rumene.
Tornando in patria, per quanto riguarda il reimpiego di capitali illeciti, i D’Alessandro sono stati segnalati dall’Antimafia in Toscana. Uno degli episodi più emblematici è l’appoggio offerto da due uomini di Piancastagnaio, in provincia di Siena, a uno dei killer del consigliere comunale Luigi Tommasino subito dopo l’omicidio avvenuto nel 2009. Il sicario ha dormito in un podere e nell’abitazione di uno dei due. A partire da questo episodio le autorità hanno poi scoperto che il clan aveva investito soldi in una fabbrica di borse aperta proprio a Piancastagnaio. Considerati organici alla cosca, la presenza dei due affiliati toscani è stata documentata anche a Scanzano. Le autorità hanno ipotizzato che la cosca avesse in mente di realizzare in Toscana alcune piantagioni di marijuana (il narcotraffico nell’area stabiese è assicurato dall’alleanza tra i D’Alessandro e i “Di Martino-Afeltra”, attivi sui Lattari, per la marijuana, mentre ad assicurare eroina e cocaina ci sono gli “Imparato” del rione “Savorito”).
Ma i D’Alessandro in Emilia Romagna hanno fatto di più. Tra Rimini, Riccione e Ravenna boss e gruppi di fuoco hanno programmato omicidi, hanno trascorso latitanze e creato una fama oscura attorno ai capiclan che si sono succeduti alla guida dell’organizzazione dopo la morte di Michele D’Alessandro. Vincenzo D’Alessandro incontrava i suoi uomini in un centro commerciale di Rimini prima di nascondersi, braccato dalle forze dell’ordine, a Ravenna, in un appartamento preso in affitto da un barista del posto.
“Le carte dell’Antimafia partenopea – si legge in un articolo de ‘Il Fatto Quotidiano’ del 2013 – parlano di conseguimento e controllo diretto o attraverso prestanome, spesso le donne dei boss, di attività economiche e imprenditoriali, usura, detenzione di armi da guerra ed esplosivi, riciclaggio e omicidi”. “Le donne dei boss”, ovvero coloro che per un lungo periodo, dopo i colpi inferti dalle autorità alla cosca tra il 2009 e il 2011, hanno retto le redini dell’organizzazione, come confermato dalla Dia nella precedente relazione consegnata al Parlamento.
Francesco Ferrigno