Togliere la patria potestà ai camorristi. Un argomento che ultimamente fa discutere molto occupando pagine intere di giornali a firma di autorevoli relatori. In merito il procuratore capo di Napoli Giovanni Colangelo ha sottolineato pubblicamente la difficoltà oggettiva di privare a capi ed affiliati di camorra della patria potestà.
“Siamo di fronte ad una tale questione sociale – ha precisato Colangelo – che non possiamo pensare di risolverla e affrontarla soltanto ricorrendo alla repressione giudiziaria e al contrasto di polizia. Anche perché noi siamo un po’ come i medici chiamati a intervenire quando ormai la malattia è esplosa.
Sulle cause di un problema di tale portata non sta a noi giudici intervenire ma ad altre istituzioni. Per cause intendiamo problematiche sociali legate al mondo del lavoro, all’influenza familiare e persino alla situazione urbanistica della città di Napoli. Sono convinto della necessità di operare in sinergia tra le istituzioni tutte nel rispetto dei ruoli e delle competenze specifiche”.
Chiaro il messaggio del noto magistrato che differenzia l’attuale concezione del crimine da quella di anni addietro. “Viviamo una realtà criminologica o criminale – ha continuato Colangelo – molto diversa da quella esistente, tanto per fare un esempio, ai tempi in cui imperava la Nco di Raffaele Cutolo. Oggi i giovani si avvicinano poco più che adolescenti al crimine organizzato con l’arroganza di chi è disposto a tutto pur di salire rapidamente nella gerarchia camorristica.
Potremmo dire che i baby boss di oggi sono più svegli e attivi dei loro predecessori sotto il profilo criminale. Quando parliamo di perdita della patria potestà ci addentriamo su un territorio minato da diverse sfaccettature tecnico-giuridiche. La questione è complessa perché investe aspetti sociali. Per questo non è possibile avere un solo approccio processuale ma occorre ragionare in modo interdisciplinare.
Occorre avere ben presente un concetto: l’interesse del minore, così come previsto dalle leggi e dalla Costituzione, prevale su ogni altro. Ecco perché togliere la patria potestà ai camorristi non può essere un intervento automatico ma stabilito caso per caso: pertanto il nostro lavoro è svolto sempre in stretto contatto con l’ufficio giudiziario per i minori”.
Chi vive Napoli come lo scrivente, chi quotidianamente si confronta con certe realtà resta perplesso dalla troppa retorica, soprattutto mediatica, che affoga un tema delicatissimo in un mare di chiacchiere. Se un boss del calibro di Umberto Accurso, attualmente detenuto al 41 bis e capo indiscusso del clan “Vanella Grassi” di “Secondigliano”, ordina da latitante di sparare contro la locale stazione dei carabinieri perché la legge vuole togliergli i figli vuol dire che l’alienazione sociale di chi vive da sempre al di fuori della legalità è tale da non porgli limite alcuno nell’agire contro lo Stato.
Stato che per molti quartieri ghetto di Napoli e della provincia non è mai stato capace di creare occupazione, scolarizzazione e sana aggregazione. Oggi sembra che all’improvviso si scoprano realtà scontate da sempre: forse sarebbe il caso di interrogarsi sulle responsabilità di politici corrotti e cattivi amministratori che per decenni hanno solo sfruttato la povera gente e le potenzialità del territorio mostrandosi pubblicamente solo in periodo elettorale.
Gli stessi politici che poi dicono di combattere e persino di non conoscere i camorristi a cui hanno chiesto voti per occupare l’ambita “poltrona”. Della serie: non si può curare un cancro in fase avanzata con l’aspirina dell’ipocrisia che ad ogni livello è costata a Napoli e all’hinterland vesuviano un prezzo altissimo nel tempo.
Alfonso Maria Liguori