L’arrivo nel luglio del 2016 a Calais dà l’impressione di essere giunti in una cittadina portuale come le altre, con le spiagge popolate da bagnanti e un bel sole che illumina tutta la costa. Dallo spiazzale, immediatamente al di là della banchina del porto, è possibile vedere già le prime recinzioni di filo spinato.
Prima di arrivare a Ferry Port, il porto di Calais, ho attraversato il confine con il traghetto che mi ha portato da Dover fino alla città francese. Dopo all’incirca un’ora di viaggio, il traghetto è arrivato a Ferry Port e da lì ho preso un’autobus con il quale sono giunto al centro di Calais.
Il Municipio di Beffroi adornato all’esterno con un bel giardino mostra, a primo impatto, una città ben curata dove non ci sono problemi e la vita scorre normalmente. Incamminandomi per il centro abitato posso osservare strade pulite, tanti negozi e centri commerciali.
The jungle
Peccato che dietro la bellezza del giardino e delle strade ben curate esiste un’altra città, un altro mondo: “the jungle”, il campo dove migliaia di persone attendono di poter andare nel Regno Unito. O forse non sanno neanche più loro cosa attendono.
Qualcuno ancora ci prova ad oltrepassare la Manica. Altri invece, dopo tanti tentativi, ci hanno rinunciato ed hanno capito che molto probabilmente la loro vita la passeranno lì; in un campo dove, prima che iniziassero gli sgomberi, erano ammassati quasi 7mila persone ingabbiate da recisioni sorvegliate da poliziotti pronti ad evitare qualsiasi tentativo di fuga verso la Gran Bretagna.
La strada percorribile a piedi che ti porta al campo profughi costeggia l’autostrada ed è una piccola stradina immersa nel verde. Camminare tra gli alberi è molto piacevole, solo l’incontro dei mezzi della polizia lungo il tragitto ti fa capire che quella strada alberata che si sta percorrendo in realtà ti sta conducendo verso un luogo completamente diverso da tutto il resto.
Appena fuori al campo ci sono villette con giardini adornati da meravigliosi fiori, qualche abitazione ha perfino le altalene all’esterno, ed è sensazionale come la tranquillità e l’innocenza di questi luoghi sono in contrapposizione con quello che c’è a pochi metri più in avanti: un nuovo mondo, una nuova società che non si mescola a quella di Calais.
Mi incammino verso il campo, l’aria calda e la polvere del terreno danno l’impressione che ci si stia avviando verso un deserto al cui centro si erge una tenda-chiesa, ma ecco che poi dopo alcuni metri ti trovi all’interno della jungle.
Un via vai di persone camminano per le strade, la via principale dei negozi è fantastica con tutte tende-bar e ristoranti allestiti con le bandiere nazionali dei proprietari dove non ho potuto fare a meno che sedermi ed assaggiare un buonissimo the in un negozio di afgani che parlavano molto bene l’italiano.
Tende, tende, tende
Tende, tante tende, e tanta gente che tenta di ingannare il tempo. Quello che mi colpisce è la vista di un uomo dalla pelle nera rannicchiato in un carrello, come quelli che si usano per fare la spesa, che fuma sigarette con lo sguardo di chi si è stancato di camminare e ora riposa, riposa con sguardo perso e senza speranze.
C’è invece chi ha ancora entusiasmo, come un gruppo di ragazzi eritrei che sono felicissimi di avere me e il mio amico come ospiti nella loro casa. Forse la loro giovane età ancora non ha permesso di abbandonare la speranza di una vita migliore, anche se a solo 16 anni, il più giovane, e 20 anni, il più grande, hanno già dovuto affrontare un viaggio di tre mesi per arrivare a Calais partendo dal paese di origine, l’Eritrea, passando per l’Italia per poi arrivare in Francia.
La fede, il credere in un Dio e in Cristo sembra tener in vita questo ragazzino di 16 anni che continua a farmi vedere un video di Gesù e prega. Dopo aver preso del the ce ne andiamo nonostante il rammarico dei ragazzi che avrebbero voluto che restassimo e quello che più mi colpisce è la loro ospitalità e disponibilità a condividere con noi quei pochissimi beni di prima necessità.
La vita all’interno del campo è molto precaria, ci sono tende che sono praticamente ubicate su piccoli laghetti di acqua putrida e puzzolente e al loro fianco tanti mucchietti di immondizia. Per le strade c’è anche chi fa il barbiere e, immancabilmente, c’è chi gioca a pallone nel grande spiazzale del campo che è delimitato, con la strada adiacente, da recinzioni in continua espansione. In quel luogo sembra che il tempo scorra in modo diverso anch’esso rinchiuso in quel campo e fuori c’è un’altra città che corre più veloce.
Volontari da tutto il mondo
Il lavoro dei volontari è molto importante poiché grazie ai loro aiuti le persone che vivono nel campo riescono ad avere legna per il fuoco, vestiti per ripararsi dal freddo, dalla pioggia e inoltre sono organizzate iniziative ludiche e culturali che vengono svolte all’interno del campo. I volontari, che arrivano da tutto il mondo, organizzano il loro lavoro in grossi capannoni al di fuori del campo.
Una vera equipe che si divide i compiti ed ognuno può fare il lavoro che più gradisce e tutti sono utili, nessun lavoro è meno importante. La mattina c’è un vero e proprio risveglio muscolare, si fa colazione tutti insieme e poi ci si divide i compiti. Il suono della campanella annuncia che è arrivato il momento del pranzo, dopo la sosta si ritorna a lavorare sempre con entusiasmo e anche divertimento.
Calais, la sua giungla e l’Europa
Calais non è jungle e jungle non è Calais. The jungle è una tendopoli trapiantata li che nessuno vuole dove continueranno a crescere bambini e adulti sempre più lontani dal concetto di pace e tranquillità. Viviamo in una Europa che cerca ad ogni modo di sensibilizzare le persone a credere in una solidità e solidarietà europea, ma non pensa che si potrebbe partire proprio dalle persone che arrivano qui affinché possano diventare una generazione consapevole e cosciente dei valori europei e non essere solo oggetti che vengono riconsegnati al mittente o abbandonati senza poter ricevere una vera educazione culturale.
Ragazzi che osservano il loro futuro bloccato dalla costruzione di altre recinzioni che li ingabbiano, ed è questo quello che ho visto: un ragazzino di 14 anni seduto per terra ad osservare impassibile e con sguardo fermo operai a lavoro per prolungare la recinzioni di filo spinato. Recinzioni che ampliano sempre di più il distacco tra Europa e immigrati e tra l’essere ancora umani e il non esserlo ormai più.
Gianluca D’Ambrosio
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