Antonio Careca a Pompei: Sarri l’uomo giusto per lo scudetto a Napoli

E’ un Antonio Careca show al bar “Hcca24” di viale Mazzini. Il campione brasiliano è stato scelto da una giovane realtà calcistica del Vesuviano (la “Viesse” di Vincenzo Raiola e Stefano Cirillo) come testimonial e operatore di una nuova metodologia di allenamento da proporre ai ragazzi delle scuole calcio.

Stefano Cirillo: “L’idea parte da una riflessione: siccome per professione curiamo il perfezionamento della tecnica dei giovani calciatori da preparare per categorie importanti, per il mondo del professionismo. Negli ultimi anni si sta sviluppando molto la tecnica e la tattica ma ci siamo un po’ dimenticati di alcuni aspetti della parte atletica. Con noi c’è Alfonso Pinto, 14 volte campione italiano di pugilato, il dottor Marco Caserta che si occupa della parte scientifica, dello studio dei plantari e dell’ortopedia. Insieme al Prof. Barba, abbiamo sintetizzato le capacità atletiche che si sviluppano con la boxe e gli studi scientifici, e abbiamo capito perché Antonio Careca è diventato un campione mondiale. A 10 anni lui, giocando sulla spiaggia, per strada ecc. ecc. ha sviluppato capacità motorie diverse rispetto a quelle di oggi. Lui era impegnato in almeno 5 o 6 ore di gioco al giorno, mi ha raccontato che il suo primo campetto da calcio era fatto a gobba e addirittura non vedeva dove era la porta avversaria e dunque per vederla doveva superare la metà campo. Abbiamo approfittato della presenza di un campione completo ed universale, senza tempo, forte di testa, destro e sinistro, per divulgare questo metodo di allenamento che si basa su atletica e coordinazione. Il nostro slogan è: prima di giocare a calcio bisogna essere atleti. La tecnica è fondamentale, ma non dobbiamo dimenticare l’alimentazione, la posturologia, l’igiene del sonno. Sport prima, con tutti i suoi criteri e postulati, calcio poi. Antonio Careca prima di essere un fuoriclasse del calcio, sa giocare a tennis, a nascondino, volley, sa orientarsi sempre”.

Careca: “Ringrazio tutti per l’invito e sono felice di far parte di questo progetto. La prima cosa che un allenatore deve fare per un ragazzino, è trasmettergli fiducia. In Brasile per ogni bambino che nasce, gli viene regalato un pallone con la speranza che possa diventare un campione, ma poi l’unica cosa che conta è dargli la possibilità di orientarsi nella vita a prescindere dal calcio. Io a tennis gioco con la destra, a Basket con la sinistra, ora mi diverto con il gol e sono mancino. Ai ragazzi bisogna insegnare a credere di poter migliorare. Ho fatto anche boxe anni fa, mi ha insegnato a tenere i piedi a terra nel modo giusto, per essere più reattivo. Andavo a nozze con i difensori che poggiavano male i talloni ad esempio, li beffavo sul tempo. E’ dunque importante curare tutti i dettagli anche perché le società oggi investono molto e non si può sbagliare. Ovviamente anche i genitori hanno un ruolo importante, non devono caricare i loro figli di eccessive responsabilità. Lo sport deve aiutare a crescere per essere pronti ad affrontare la vita, non tutti diventano campioni. Ma si può migliorare a qualsiasi età. Ricordo un grande calciatore brasiliano, Dadá Maravilha, strappò il suo primo contratto da professionista a 28 anni e vinse il mondiale nel 1970. Ha segnato oltre 400-500 gol”.

Poi Careca racconta un aneddoto: “Nel calcio è fondamentale capire tutto prima possibile e per gli stranieri che approdano in un altro paese la lingua è determinante per inserirsi negli schemi, interagire con i compagni. Quando arrivai a Napoli avevo un interprete, ma era un esperto di opera lirica, di calcio non capiva proprio nulla e litigava con l’allenatore Ottavio Bianchi: lui mi chiedeva di giocare più a destra visto che al centro c’era Giordano e quando la palla ce l’aveva Maradona dovevo tagliare in area per stare più vicino alla porta. Il mister chiedeva all’interprete perché non facevo quel movimento e gli rimproverava di non avermelo spiegato bene. All’inizio ero come Callejon, infatti indossavo la maglia numero 7”.

Stefano Cirillo: “La VieSse sport di Vincenzo Raiola e del sottoscritto è sinonimo di talenti, ma questo non vuol dire diventare fabbrica di illusioni. Facciamo in modo di fare calcio quanto ai massimi livelli con un’attività sana e studiata, ma l’aspetto principale è il rendimento scolastico. Progetto Gym non vuole dire sfornare campioni, ma aiutare a crescere nel modo giusto. Come ha detto Careca, non tutti ovviamente diventano campioni: per ogni annata c’è un potenziale campione su 22 mila. Nel calcio, a differenza di altri sport, c’è quell’automatica pretesa di giocare per arrivare in Serie A. Il nostro  è un “percorso di mille colori” perché attraverso lo sport insegniamo ad entrare in società. Non diremo mai che la VieSse sport fa calcio per far diventare i bambini calciatori di Serie A”.

Pinto: “Boxe e calcio sono sport totalmente diversi eppure molto simili. Il pugilato è lo sport della massima coordinazione, della tensione, della concentrazione, del sincronismo braccia e gambe. Come ha sottolineato Careca, se io ho i talloni a terra, devo utilizzare un tempo in più a differenza di chi è già sugli avampiedi ed è pronto per colpire. Un difensore con i piedi a “papera”, se si trova di fronte uno come Antonio, è fritto. La sintesi delle discipline aiuta un atleta ad avere orizzonti più ampi pur specializzandosi in una di esse. Nell’ambito Progetto Gym, con Careca, lavoreremo anche con la classica corda”.

Careca: “Sarri? E’ l’allenatore giusto per riportare lo scudetto a Napoli, ha qualità per farlo. Ma la domanda da fare a De Laurentiis è: “lui ha voglia di vincere il tricolore?”. La squadra azzurra si diverte giocando, uno dei segreti del calcio, ed è la migliore di tutte sul piano della qualità del gioco, Juve compresa. Il presidente deve completare l’opera e comprare tre calciatori. Al Napoli mancano due leader: il primo in difesa, l’altro a centrocampo. Bisogna aumentare ancora un po’ la qualità tra titolari e riserve, e trovare qualche variante tattica perché non è facilissimo ripetersi con un solo spartito. Anche il mio Napoli aveva una rosa limitata a 13-14 giocatori, è fondamentale alzare l’asticella. Dove avrei giocato in questo Napoli? Anche in porta (ride, ndr). Ho iniziato come trequartista, come 8 antico, il volante alto: avevo 15 anni. Poi sono diventato un numero nove e l’esperienza da centrocampista mi ha aiutato ad orientarmi anche spalle alla porta perché avevo metabolizzato la visuale del campo. Con Sarri potrei fare tutti i ruoli dell’attacco”. Un tifoso, Silvio Falanga, lo esalta: “Sei il più forte attaccante della storia del Napoli e con il grande Van Basten te la giocavi. Anzi, io ti preferisco”. Immediata la riposta del brasiliano: “Ti pago la birra dopo. Marco un fenomeno della mia epoca, ma anche io mi difendevo per tecnica, giocata, velocità. Higuain e Cavani mi portano la borsa? Sono forti anche loro, ma soprattutto sono diversi da me. Calciatore italiano più forte tra quelli che ho visto? Scelgo Bruno Giordano: completo tecnicamente, esplosivo, grande fantasia, rapido, intelligente: un fenomeno. Peccato che è andato via dopo un anno per chiudere la carriera ad Ascoli a soli 32-33 anni. Mi ricordava molto il brasiliano Reinaudo. Poi ricordo con piacere un giovane Paolo Maldini e un grande Roberto Baggio. Ma Bruno Giordano, lo dirò sempre, mi ha davvero impressionato”.

Poi un retroscena di mercato: “Prima di accettare l’offerta del Napoli avevo sul tavolo un invito del Real Madrid e di un club francese. Ma il mio sogno era giocare accanto a Maradona. Al mondiale del 1986 fui premiato come vice cannoniere alle spalle di Lineker, e feci una chiacchierata con Diego. Poi l’anno dopo, nel 1987, mi chiamò il Torino perché fui indicato a Moggi da Junior. Il direttore mi chiamò e io gli dissi che volevo giocare con Maradona. Lui rispose: “Vieni prima da noi e poi vai a Napoli”. Due mesi dopo, Moggi – forse litigò con i granata – mi portò in azzurro e realizzai il sogno. Conoscere l’amore dei napoletani è stato stupendo: sono unici. Potevamo vincere la Coppa dei Campioni? Era più difficile, la disputava solo la vincitrice del campionato e non c’erano i gironi, ma la partita secca. Siamo stati sfortunati nel pescare il Real Madrid, e a Mosca, la seconda volta, ci andò male. Io nemmeno giocai contro lo Spartak. Poi anni dopo la formula è cambiata, ma vi posso assicurare che la Coppa Uefa che vincemmo, all’epoca era molto prestigiosa e difficile: battemmo la Juventus, il Bayern Monaco e lo Stoccarda, tutte squadre che avrebbero disputato i gironi dell’attuale Champions. Vincere a Napoli è più difficile e un titolo qui vale per 10”.

Molti tifosi hanno accolto al bar l’ex bandiera del Napoli di Maradona. Careca non si è sottratto a nessun selfie e prima di lasciare il locale ha bevuto un cocktail preparato in suo onore: rigorosamente azzurro Napoli con un tocco di colore verde-oro del Brasile. La bevanda è stata preparata dal manager del bar Giovanni Di Somma. Tra gli ingredienti sprite, blue curacao e cachaca. 

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