Oggi il Vesuvio è scomparso alla vista di chi sulle sue pendici vi abita. E probabilmente anche guardato da lontano il suo skyline risulterà offuscato. La coltre di fumo sprigionata da un incendio che dura ormai da nove giorni e che ha un fronte di circa due km sta invadendo i paesi a valle tipo blob, rendendo l’aria irrespirabile e le narici insensibili.
La prima stima dei danni parla di 50 ettari di terra bruciati, la gran parte rappresentata da pineta ricadente nella zona protetta del Parco Nazionale (che da due anni ha un nuovo presidente e da due anni, guarda caso, arde quasi ininterrottamente… qualcuno lo aiuterà a dimettersi?!)
Solo lambite le zone residenziali, alcuni danni li ha riportati qualche ristorante costruito spregiudicatamente negli anni passati troppo in alto.
E’ fuori discussione che la pena e lo strazio, una volta scampato il pericolo per gli umani, sono dovuti al pensiero di come in poco tempo un pezzo di natura – un bene comune fatto di boschi, vegetazione, fauna, paesaggio – sia letteralmente scomparso, annichilito da fiamme e fuoco non generatesi naturalmente. Come oziose sembrano le discussioni sui ritardi nei tempi di intervento per disinnescare il peggio, peggio che poi ha avuto il sopravvento come quasi sempre accade a queste latitudini.
A chi interessa dare fuoco al territorio?
Ma non si può non aprire, a mente calda, una discussione ampia quanto critica su tutto ciò che rappresenta la gestione politica di un pezzo di territorio integro solo come cartolina da vendere ai turisti ma nella realtà attraversato da contraddizioni dilaceranti. Una presa di parola fatta per lo più di interrogativi ai quali saranno tenuti a rispondere soggetti diversi, in primis i responsabili istituzionali, Regione, comuni, prefettura. Partendo dalla domanda la più ovvia: a chi interessa appiccare il fuoco?
Certo, si potrebbe rispondere immediatamente: a chi sulle aree in questione vorrebbe metterci le mani per installare nuovi manufatti, nuove attività, agli speculatori con metodi mafiosi. Ma questa risposta affrettata tradisce le peculiarità dello spazio interessato: l’incontrollabile fuoco ha distrutto un’area protetta –una riserva naturale- nella quale è quasi impossibile speculare data la massiccia tutela giuridica fatta di vincoli che ne inibiscono interventi da parte di privati.
E’ zona interdetta anche ai residenti, espropriati due volte e perché non possono accedere alle zone interessate se non pagando un ingresso come turisti e perché spossessati anche del paesaggio adesso che questo è andato in fumo.
Quindi bisogna andare più a fondo per individuare la catena degli interessi, non rimanere in superficie
Si potrebbe ipotizzare che il lucro si nasconda tra le fila di chi gestisce attualmente l’intera area attraverso appalti con ditte deputate allo spegnimento degli incendi tipo le società che fittano elicotteri ed aerei, oppure alle società che operano stagionalmente nel servizio di prevenzione e spegnimento o quelli che vivono di rimboschimento.
Ma pure questa sembra una risposta che non spiega tutto. Anche se qualcosa in più dice.
Niente, non se ne esce. Rispondere in modo troppo specifico allena all’investigazione ma ci allontana da una presa di coscienza reale. Il fatto è che tutte le ipotesi sono valide, ma prese nel complesso. E’ il sistema politico fondato sulla gestione clientelare e privatistica il luogo dove si ricompongono gli interessi di chi specula sul territorio, le sue potenzialità e la sua messa a valore. E’ qui che bisognerebbe andare a cercare risposte.
Questo processo consolidatosi nel tempo, che emargina sempre di più le comunità relegandole ad un silenzio mortifero, fa si che la cinghia di trasmissione della produzione di ricchezza muova i flussi di denaro solo in direzione di pochissime e bene addestrate mani. Ciò avviene sia in tempi di calma piatta sia nei periodi contingenti di calamità, con la forma di governo che veste i panni dell’emergenza. Forse una via d’uscita dalla rassegnazione con cui la società nel suo insieme affronta il fenomeno, spia ne sia il fatto che non c’è traccia di proteste organizzate contro quanto sta accadendo, va ricercata proprio nel duplice senso che ha la parola emergenza: non quello che rimanda alla paura e al suo governo ma quello che costituisce attraverso uno sperimentare che diventa un fare altro. Questo altro lo possono produrre solo le comunità che riprendono in mano il loro destino. Troppo facile indicare i colpevoli dello scempio in atto, sono tutti sotto la luce del sole. Il difficile sta, per le popolazioni sottomesse, creare le condizioni per l’invenzione di nuove politiche comuni che salvaguardino e tutelino la vita e l’ambiente. Pena il restare immobili su una coltre di cenere, asfissiati dalla puzza di bruciato.
Vian