Adesso che non c’è più fumo sul Vesuvio o, almeno, così pare, salvo qualche focolaio sporadico, oltre al fuoco che da qualche parte ancora potrebbe covare sotto la cenere, la “nuttata” della Montagna dovrebbe essere passata, se i conati di criminalità non si ripresenteranno. Ora tocca agli inquirenti, agli investigatori, muoversi per capire i motivi del tutto e assicurare alla Giustizia degli uomini mandanti (se ci sono) e manovali di tanto scempio: un omicidio – disastro perpetrato con scienza e coscienza. E dunque premeditato.
L’altra Giustizia, quella della Natura e di Dio, provvederà a tempo debito. Ed è proprio per evitare ulteriori lutti e pene a questo disgraziato e già troppo martoriato territorio che si dovrà fare presto. I tempi per evitare altri disastri e, forse perdite umane, sono stretti. Il paesaggio lunare che è diventata la Montagna non ammette ritardi. La cenere, le radici degli alberi morti, non più capaci di trattenere il terreno, annunciano dilavamenti alla prime piogge autunnali, ai primo acquazzoni d’ottobre, novembre.
Tutto quello che sta sopra rischia di scendere a valle. Due giorni fa, un forestale, uno di quelli che per giorni si sono battuti contro il fuoco, con gli occhi gonfi e rossi per la fatica e per le lacrime, parlava con un suo amico e proprio questo sottolineava, a margine della descrizione del disastro e di come era stato costruito: «non sai quanti gatti abbiamo trovato con gli stoppazzi sulla coda. Gli davano fuoco e i poveri animali correvano per la paura e per il calore, sino a quando non si incastravano da qualche parte e morivano bruciati anche loro. Hanno distrutto la vita del Vesuvio per almeno mezzo secolo. Tanto ci vuole per fare crescere un pino di quelle dimensioni. E adesso bisognerà stare attenti a quando pioverà».
Certo. A quando pioverà. Un secolo e passa fa, all’indomani dell’eruzione del 1906, successe la stessa cosa. Tra alberi bruciati e cenere e lapilli caduti sui declivi della Montagna, tutto il materiale che non era compattato da qualcosa, con le piogge, scese a valle. E provocò altri lutti. Ci sono le testimonianze scritte. L’undici aprile 1906, appena dopo che era finita la fase eruttiva, Alessandro Guarracino telegrafava al Presidente del Consiglio dei Ministri, a Roma «Inorriditi catastrofe San Guseppe Vesuviano e Ottajano che da quattro giorni sono completamente abbandonati e distrutti …» e ammoniva allarmato «… con immensi maggiori e incalcolabili danni qualora sopravvenisse pioggia che già minaccia e che farebbe rovinare le poche cose rimaste, invitiamo V.E. a far intervenire immediatamente compagnie genio militare…».
E le piogge arrivarono. Il 27 aprile, acqua, cenere, lapilli diventarono melma, fango e scesero a valle con violenza, sospingendo anche massi di grosse dimensioni. La linea della Circumvesuviana venne sbalzata dalla massicciata, i ponti di ferro che erano serviti per portare soccorsi, distrutti. Terzigno, Pollena, Cercola, Pomigliano d’Arco, Ottaviano, a nord del vulcano, vennero coperti quasi interamente da una coltre di fango; stessa sorte toccò a Torre del Greco, a Resina, dopo aver fatto vittime a Portici, a San Giovanni a Teduccio, alla Croce del Lagno, a San Giuseppe alle Paludi. Questo nuovo disastro distrusse circa 400 nuovi ettari di territorio arbustivo, oltre a case e vite umane.
Ulteriori disgrazie si verificarono con le alluvioni autunnali. Insomma una tragedia nella tragedia. Quanto durò il recupero dell’area e la sua messa in sicurezza? Una decina di anni, oltre cospicui investimenti: sei milioni di lire (dell’epoca) per la sistemazione dei torrenti e il riassetto forestale e idraulico (a questo si mirava, forse, provocando il disastro?), due milioni di lire per i corsi d’acqua e i bacini alle falde del Vesuvio. Ecco. Questo insegna la storia con i suoi “corsi e ricorsi”. Si farà? Quando? E chi lo sa. Ma sarà meglio non sottovalutare questa eventualità. Per carità, nessuna “secciatura”, come si dice in questi casi. Solo buonsenso. Buonsenso e conoscenza dei fatti passati.
Carlo Avvisati