Chissà se leggendogli l’elenco delle sue vittime si sarebbe ricordato di tutti loro. Delle motivazioni che l’avevano spinto ad uccidere o a comandare gli assassini. Sicuramente no. Erano talmente tanti che anche la mente più allenata avrebbe avuto difficoltà di memoria.
E’ morto a 87 anni mentre scontava 26 ergastoli per duecento omicidi accertati Salvatore Riina detto Totò “‘u curtu”. In un colloquio video-registrato nel carcere di Parma il 27 febbraio scorso ribadiva alla moglie Antonietta Bagarella: “Io non mi pento… non mi piegheranno. Non voglio chiedere niente a nessuno. Mi posso fare anche 3000 anni, no 30”. E come avrebbe potuto pentirsi un personaggio che per tutta un’esistenza ha puntato a essere il capo dei capi di Cosa Nostra? In fatto d’immagine c’è riuscito bene. Anche a distanza di 24 anni dal suo arresto è rimasto il Capo – per lo meno nell’immaginario collettivo – dell’organizzazione malavitosa italiana che fino a qualche anno fa era la numero uno in assoluto, appunto la mafia siciliana.
Le cose cambiano però e lo scettro dell’organizzazione criminale italiana, diciamo così, più potente è passata alla ‘ndràngheta calabrese. Essa, secondo una relazione della Commissione antimafia, “ha una struttura tentacolare priva di direzione strategica ma caratterizzata da una sorta di intelligenza organica”, e viene paragonata alla struttura del movimento terroristico islamico Al-Qaida.
Insomma, la ‘ndrangheta è diventata tra le più pericolose organizzazioni criminali del mondo, con un fatturato che si calcola superi i 53 miliardi di euro annui. C’è poi la camorra napoletana caratterizzata da un gangsterismo di bande formate ultimamente da giovanissimi delinquenti, spesso in lotta tra di loro.
Che Riina continuasse ad applicarsi, fino alla fine dei suoi giorni, a provare a mantenere l’immagine del numero uno della sua organizzazione, tramite le intercettazioni ambientali che lui immaginava potessero essergli fatte, è cosa ovvia.
Ma che lo Stato si lasciasse sfuggire certi suoi pronunciamenti lascia perplessi. “Lo faccio finire peggio del giudice Falcone. Lo farei diventare il tonno buono”. Così Riina si esprime nel dicembre 2013 nei confronti del magistrato Nino Di Matteo.
“Se non muoiono tutti e due, luce non ne vede nessuno”, dicevano due mafiosi in un’intercettazione telefonica. I “due” erano Toto’ ‘u curtu e Bernando Provenzano. Sono morti entrambi e con loro, forse, l’impostazione a cupola della mafia.
L’errore più grande commesso da Riina è stato quello di aver voluto scatenare una vera guerra allo Stato. La mania di grandezza e la voglia del dominio assoluto sull’organizzazione mafiosa l’hanno portato ad esaltarsi al punto d’organizzare stragi per ottenere dallo Stato benefici per i suoi sodali. C’è riuscito fino ad un certo punto. Poi è scattata l’offensiva – meglio difensiva – dello Stato che l’ha inchiodato alle sue tremende responsabilità. Resta il fatto che il nostro Paese esporta come Made in Italy criminalità in tutto il mondo e che lo Stato sembra impotente a bloccare i fenomeni malavitosi.
I tempi cambiano e anche la mafia è probabile che sia già mutata. Non più folcloristiche affiliazioni dei soci o cupole formate da soggetti assolutamente ignoranti, con la dote però della scaltrezza e dell’aggressività senza limiti. C’è chi già ipotizza il successore e lo va a cercare tra i compagni di Totò ‘u curtu. C’è chi parla di Matteo Messina Denaro, il super latitante, più propenso però a curare la sua super latitanza ed i suoi affari.
Forse già da anni la mafia si è data un’organizzazione più rispondente ai tempi e soprattutto alla necessità di ritornare prima nel business del malaffare. Per combatterla certo l’azione della polizia e della magistratura, ma soprattutto bisogna puntare sulla formazione dei giovani alla legalità. La politica può far molto a partire alle prossime elezioni, senza ambiguità, puntando su liste elettorali di soggetti che per tutta la loro vita hanno dimostrato com’è possibile lavorare nell’assoluta legalità, senza compromessi con chicchessia.
Elia Fiorillo