L’effetto domino innescato dal bando all’importazione di rifiuti in plastica introdotto dalla Cina nel 2018 ha fatto emergere le numerose falle e criticità del sistema di riciclo della plastica su scala globale. Nonostante nel 2018 le esportazioni mondiali
siano nettamente calate fino a raggiungere la metà dei volumi registrati nel 2016, nuovi Paesi, principalmente del Sud-est asiatico e non dotati di regolamentazioni ambientali rigorose, sono diventati le principali destinazioni dei rifiuti occidentali. Inclusi quelli provenienti dall’Italia, che risulta tra i principali esportatori mondiali.
È quanto emerge dal rapporto “Le rotte globali, e italiane, dei rifiuti in plastica”, diffuso oggi da Greenpeace, in cui viene effettuata un’analisi del commercio mondiale dei rifiuti in plastica, relativa ai 21 maggiori Paesi esportatori e ai 21 maggiori importatori nel periodo compreso tra gennaio 2016 e novembre 2018. Il report, oltre ad analizzare le esportazioni e le importazioni di materie plastiche riconducibili al codice doganale 3915 (scarti di lavorazione, cascami, rifiuti industriali e avanzi di materie plastiche), evidenzia le nuove rotte globali conseguenti al bando cinese all’importazione con un focus specifico sulla situazione italiana.
Altro che riciclo, ecco dove vanno a finire i rifiuti di plastica prodotti in Italia.
A un anno dal blocco cinese sull’importazione dei rifiuti, l’Occidente rischia di
trovarsi sommerso da un mare di plastica. E, ora che la Cina ha chiuso le frontiere, e
che altri Paesi asiatici stanno programmando ulteriori bandi, anche in Italia rischiano
di accumularsi rifiuti in plastica che in Oriente non vogliono più ricevere.
l’Italia è all’undicesimo posto tra i principali esportatori di rifiuti plastici al mondo: solo nel 2018, abbiamo spedito all’estero poco meno di 200 mila tonnellate di scarti di plastica. Per avere un’idea chiara del nostro export, si tratta di un quantitativo pari a 445 Boeing 747 a pieno carico, passeggeri compresi.
Per la precisione, 197 mila tonnellate di plastica hanno varcato i confini italiani lo
scorso anno, per un giro d’affari di 58,9 milioni di euro. Un meccanismo che, fino ad una manciata di mesi fa, vedeva come partner privilegiato la Cina. Gran parte degli scarti plastici europei
– e italiani – fino allo scorso anno, erano caricati su navi e diretti verso la Repubblica Popolare cinese. Contenitori, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta, finivano ad intasare magazzini cinesi per poi – nella migliore delle ipotesi – essere riciclati. Un meccanismo che, poco più di un anno fa, si è interrotto bruscamente.
Quel che dall’Italia partiva con destinazione Pechino era il cosiddetto “fine nastro”,
ovvero una serie di plastiche eterogenee, per intenderci lo scarto della raccolta
differenziata di plastica.
Container pieni di plastica spediti dall’Italia alla Cina, che poi tornavano indietro in Europa sotto forma di oggetti (giocattoli, contenitori, perfino biberon per neonati) realizzati con plastica contaminata. Infatti, se la plastica eterogenea la si spedisce in un Paese dove non viene sanificata né lavata il risultato è un macinato contaminato che può a sua volta contaminare gli oggetti con cui sarà realizzato.
Ora il giocattolo s’è rotto. Nel 2018, rispetto al 2016, la Cina ha ridotto dell’83,5 per
cento il volume di rifiuti italiani a cui concede di entrare nei suoi confini, accogliendo
di fatto dal Belpaese solo il 2,8 per cento del totale delle nostre esportazioni di scarti
plastici.
Le navi con i rifiuti in plastica italiani dunque non partono più con destinazione Shanghai: oggi le nuove destinazioni sono Malesia, Vietnam,Turchia e Thailandia. Ma il problema non è tanto la destinazione in sé, quanto il modo in cui i rifiuti vengono
smaltiti. Secondo il Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006 i rifiuti che superano i confini dell’Unione europea devono essere trattati con norme equivalenti a quelle europee, relative al rispetto di ambiente e salute. In realtà, nei paesi in cui i nostri rifiuti plastici finiscono, questi requisiti non vengono rispettati. L’unico requisito che conta è, invece, quello dell’interesse economico.
E.I.