STANZA SEGRETA è un racconto lungo tredici tappe che torna al Teatro Civico 14 dopo il successo dello scorso anno e apre la nuova stagione artistica 2019/2020. Sabato 05 ottobre (ore 20:00) e domenica 06 maggio (ore 19:00) Alessandra Asuni porta in scena una performance nata dall’incontro con la storia di Giuseppina Gonnella, donna con poteri magici e taumaturgici vissuta nell’Italia del Sud negli anni ’70.
Gli avvenimenti legati alla vita di “zia Peppina” Giuseppina Gonnella, hanno innescato nell’artista sarda una serie di ricordi accaduti nella sua infanzia, legati alla dimensione del sacro, ispirando così questo ultimo lavoro. L’ artista esplora una condizione a lei familiare, quella dell’essere e del non essere, quella del credere e del non credere, condizione vissuta nelle sue performance rituali della Trilogia dei Riti (Accabbai, Matrici, Sabi).
«Ascoltare – scrive Alessandra Asuni nelle note di regia allo spettacolo – la storia di Giuseppina Gonnella, “zia Peppina”, donna con poteri magici e taumaturgici vissuta a Serradarce negli anni ‘70 ha innescato il ricordo di una serie di avvenimenti accaduti nella mia vita, dall’infanzia ad oggi. Sarà stato per il suo carisma, sarà stato per la sua performance durante la trance, non so, ma so che ho riconosciuto in lei, in Giuseppina Gonnella qualcosa che avevo già incontrato. La stanza in cui si compie il racconto è la stanza della memoria in cui son custoditi pensieri e immagini che non vogliono più esser segreti. La stanza è un quaderno aperto dove le immagini appaiono come disegni, come ricordi, come messaggi».
Sempre domenica 06 ottobre (ore 17:00) riprendono gli appuntamenti di approfondimento sul teatro a cura di Alessandro Toppi e Michele Di Donato che introducono il focus sul lavoro di Alessandra Asuni.
Nota sul lavoro e sulla ricerca di Alessandra Asuni:
Alessandra Asuni – nel proprio percorso artistico – non lavora per la meccanicità del teatro. Piuttosto è la dimensione organica che emerge, che interessa, che si rafforza progressivamente. Reagire alle azioni dei compagni di palco, approfondire la ricerca interiore perché – solo dopo – ne derivi una possibile forma esteriore, diventare autori della propria presenza. Arte e mestiere, vita e tempo presente – l’hic et nunc, quest’attimo in cui lavoriamo – s’intrecciano come fii di uno stesso tessuto, diventando indistinguibili.
Il tentativo è dunque quello di generare percorsi umani che s’ambientano all’interno di un perimetro teatrale, che hanno il teatro per mezzo ed approdo, che diventano spettacolo senza ridursi mai ad essere soltanto spettacolo. È il processo che conta, prima della sua formalizzazione finale; è l’esperienza – individuale e collettiva assieme – che è davvero importante: il lavoro che viene svolto giorno dopo giorno e che porta alla scoperta di una parte di sé celata o imprevedibile, che porta alla conoscenza degli altri, di un tema, di un testo. Ritualità – la capacità di fare di questo luogo nel quale si prova stando assieme un altrove magico, in cui sorgono parole ed immagini imprevedibili – e ricerca antropologica, basata sull’intenso legame mantenuto con la terra d’origine; capacità di analizzare il dettato accompagnandolo e coniugandolo in una partitura visiva che rispetta la drammaturgia tradendola, ovvero traducendola in un linguaggio destinato a parlare agli occhi di chi guarda; cura della relazione interna (attore/attore) ed esterna (attore/spettatore) perché sia confermato che il teatro è – prima che la produzione organizzata di una messinscena – un modo per mettere in contatto l’uomo con l’uomo.
Matrici (la vita) e Accabbai (la morte) dicono della capacità di confrontarsi coi temi assoluti, partendo dalla carne di una donna, da pochi oggetti simbolici, dalla ristrettezza di uno spazio che va condiviso e convissuto. Performance che inducono alla partecipazione il pubblico, rendendolo – ad un tempo – testimone ed agente attivo, confine dell’atto teatrale (perimetro umano che circonda e protegge ciò che sta avvenendo) e suo elemento imprescindibile. Una veste nera, i pantaloni di stoffa invernale, il pane, il vino, il salame, l’erba bruciata al calore di una fiammella, lo scroscio dell’acqua versata sul corpo, una liturgia di segni manuali, la sonorità battente del verbo (Accabbai) dicono della materia con cui viene impastato questo teatro rituale, che lavora con ciò che la terra produce, con quello che contraddistingue l’identità atavica o storicizzata di un popolo, di una comunità, di una lunga dinastia regionale. Fondamentale la plurisensorialità del lavoro, per cui olfatto, tatto, gusto, vista e udito vengono contemporaneamente stimolati producendo una partecipazione assoluta, un coinvolgimento che rifiuta e che annulla la statica frontalità del teatro. Matrici – col suo tavolo operatorio che diventa luogo di ragionamento e d’impasto – è invece un atto collettivo, una produzione che chiama a sé chi vi prende parte: acqua, sale, farina, lievito madre vengono mescolati mentre si mescolano – nel contempo – i racconti d’ognuno: ricordi lontani, vecchie dicerie, nomi che tornano, mia madre mi disse, ho saputo, successe che, era un giorno d’estate.
Parallelo il percorso di una teatralità codificata, che parte da Lorca ed a Lorca ritorna. La testimonianza, il lascito, la memoria dei padri in Mamma compie 70 anni, la dimensione carceraria de Il salto (in cui già si cela, suggestione percepibile in controluce, la condizione illiberale di una madre-padrona) ed il recente La casa di Bernarda Alba – nel quale una parete di fondo è un insieme di stoffe femminili, bianche e notturne; le stanze sono casse e le pareti diventano ambienti abitabili e dai quali spiare – dicono della capacità di confrontarsi coi classici o la drammaturgia contemporanea, le grandi o le nuove scritture per la scena, le parole di autori diversi. Sorgono, dal buio pre-spettacolo, apparizioni; emergono legami vivi e veri tra i personaggi; movimenti organici compie l’attore o l’attrice, colmando di sé l’involucro esterno del ruolo. Per dirla proprio con Lorca: si estende l’anima sopra ogni cosa dando alle forme l’incanto dei nostri sentimenti. Insieme, perché distinguibile soltanto per chi è abituato a classificare per generi o ad usare etichette, il lungo rapporto con le donne napoletane del quartiere Forcella: le loro voci che diventano storia teatrale, i loro corpi che vengono plasmati in metafore vedibili, ed il reale – di una città, di una strada, di un nucleo familiare – che diventa aldilà del reale attraverso l’invenzione di un linguaggio che prolunga la vita attraverso la sua trasposizione artistica.
Scrive Antonio Neiwiller che il laboratorio “molte volte è stato visto come il luogo dove si elaborano particolari tecniche per realizzare spettacoli singolari” e se questo può essere vero e addirittura accettabile è anche vero – ed è più accettabile ancora – che sia “il luogo della mente e del corpo” ed un “modo per arrivare ai propri bisogni primari”. È nel laboratorio che “si creano le condizioni vitali per la ricerca” ed è nel laboratorio che s’impara che “i modi, i tempi e il luogo devono essere trovati ogni volta” con la stessa intensità – lo stesso rigore, la stessa devozione, la stessa disciplina – con cui si cercano “le cose essenziali per la vita”. Non credo ci siano parole migliori per definire questa esperienza.