Dieci domande dieci per Tonino Scala che ha rilasciato a “il Gazzettino vesuviano” un’intervista in cui ci parla del libro, delle problematiche che vuole evidenziare e dei suoi progetti, in una chiacchierata in cui fa trasparire il suo amore verso il territorio e le sue persone.
“Pastorale vesuviana” il tuo ultimo romanzo il cui titolo sembra fare (ambiziosamente) l’occhiolino al romanzo “Pastorale americana” dello scrittore americano, recentemente scomparso, Philip Roth Come è nata l’idea di questo romanzo e la genesi del relativo titolo?
“Non sembra, fa l’occhiolino. Il riferimento, con le dovute differenze per il peso dei due scrittori, il mio è un peso dato dall’amore per il cibo, è chiaro e voluto. Philip Roth, lo scrittore vero – io gioco e scrivo per non andare in analisi- attraverso le vite di alcune famiglie prova a narrare la pastorale di un popolo, quello americano. La “Pastorale americana” ha un protagonista, Seymour Levov, “lo Svedese”. In” Pastorale Vesuviana” protagonista è la terra, il vesuviano, i volti di tanti uomini e donne che la popolano e che hanno perso la speranza. Il mio è un romanzo corale, un affresco con tanti personaggi tutti protagonisti. Pastorale Vesuviana è fiction, ma non troppo, che si interseca con le notizie delle cronache giornalistiche. L’idea nasce dalla voglia di raccontare una terra che per il mondo è solo cronaca, mentre c’è ben altro”.
La trama del romanzo è un gioco ad incastri, una sorta di spaccato della nostra quotidianità con le sue problematiche, con uno sguardo a 360 gradi su varie tematiche legate al lavoro, ai ricatti, alla criminalità, alle ingiustizie sociali, all’emigrazione, alla crisi economica, alla caduta degli ideali politici. Ci racconti un po’ la trama senza fare spoiler?
“Si tratta di un affresco romantico, e nello stesso tempo disperato, che racconta la quotidianità di un giorno come tanti di un caldo autunno alle falde del Vesuvio. È la pastorale laica di una terra tellurica raccontata attraverso la vita di Rosario che conduce una battaglia isolata contro la lobby del cemento, di Tonino che ha deciso di abbandonare la sua Torre Annunziata, di Mimmo un operaio disperato di Fincantieri, di Dolceremì donna con gli occhi tristi come un cartone animato, di due ragazzi di colore che affrontano il loro viaggio di vita e di tanti altri. Storie ordinarie che s’attorcigliano con gli avvenimenti, le cronache di un lembo dimenticato e diventano storia. Punto, attraverso le parole, i riflettori su un ramo di un pezzo di provincia dimenticato dove un santo, una gallina e un comunista legato alle sue liturgie s’incontrano, si scontrano con la dura realtà e di un sud che suda”.
Quanto c’è di vero e quanto frutto della tua fantasia nel raccontare le storie dei vari protagonisti come Rosario, Tonino, Peppe ‘o Vichingo, Mimmo, Anna-Dolceremì e altri?
“È tutto vero, anche se profondamente falso. Nel senso che è tutto inventato, ma fin troppo realistico e poi si sa dalle nostre parti la realtà supera di gran lunga la fantasia”.
Ogni racconto inizia con un riferimento giornalistico, derivato dalla stampa, a fatti di cronaca nera inerenti alla Campania, a Napoli al suo hinterland oppure numeri e statistiche non proprio confortanti per il territorio campano. Come mai questa tua scelta da “reporter”?
“Troppe volte, spesso, non si dà la giusta importanza ai volti che ci sono dietro le statistiche. Diventiamo un numero e, come dice il mio amico Francesco Paolo Oreste, i numeri sono ignoranti. Ho provato a dare dignità letteraria a quei numeri che nascondono uomini e donne in carne ed ossa. Il contrasto nel libro è chiaro tra la cronaca, i numeri e i protagonisti del romanzo anche per il modo, il carattere grafico usato. Volutamente i riferimenti giornalistici son scritti con la macchina da scrivere. La fiction, che poi è carne vera in carattere ordinario come si usa normalmente in un romanzo, perché, pur essendo finzione letteraria, è sangue e carne viva. Sono storie ordinarie che s’attorcigliano con gli avvenimenti, le cronache di un lembo dimenticato e diventano storia”.
Il messaggio che alla fine vuoi mandare tramite questo tuo romanzo è che comunque ci può essere redenzione, ma è la volontà sempre a farla da padrona. Quanto ci credono realmente i personaggi e quanto questi sono “irrisolti” nel loro animo?
“Il messaggio è molto banale. È un cazzotto. Un semplice cazzotto. Chiaro, preciso, forte. Semplice appunto. Il cazzotto ha un unico intento, far male. Ho voluto fare questo. Il fil rouge, che accompagna le vite dei protagonisti di questo romanzo corale, può essere riassunto in una frase: “Senza speranza alcuna”. Pagine crude e veriste, ma a tratti surreali in una disumana umanità che scorre. Una prima lettura del testo, che si legge con grande facilità, dà l’idea appunto che non ci sia nessuna speranza, nemmeno in chi lotta visto l’epilogo e in chi fa diventare la discussione su una gallina una questione di “Stato”. Di fatto è così, non c’è speranza in queste parole, ma lo scopo vero è provare tracciare solchi di speranza per il lettore. Quando vedi tutto nero davanti agli occhi o ti rimbocchi le maniche oppure è la fine. Ed io credo nel valore salvifico della letteratura”.
La copertina del libro raffigura il Santo patrono di Castellammare di Stabia, San Catello. Come mai questa scelta, che può essere di parte visto che sei stabiese d.o.c anche se sei nato in Germania?
“Perché all’interno tra le tante storie ce n’è una che riguarda il santo e gli operai della Fincantieri, ma non voglio svelarvi altro. Stabiese doc? Sì, stabiese, che rivendica la sua “stabiesità”, ma non ha voglia di rinchiuderla in un mondo che termina a Ponte Persica”.
Il romanzo potrebbe avere un seguito, magari su grande schermo?
“La struttura si presta molto. Quando scrivo lo faccio sempre con il piglio cinematografico. Mi auguro che si possa concretizzare così come lo è stato per altri libri, ma non dico nulla, sono scaramantico e considero la scaramanzia una scienza esatta”.
A proposito, a quanti romanzi sei arrivato come scrittore e a quale ti senti più legato?
“Oramai son tanti, ho alle spalle più di cinquanta pubblicazioni. Sono legato un po’ a tutte, i libri sono come dei figli li ami tutti allo stesso modo. Diciamo che quello al quale son legato è quello che verrà”.
Quanto è difficile coniugare scrittura e l’impegno per la politica per te?
“È la cosa più naturale per chi fa politica in un certo modo, per chi crede che attraverso la politica e la letteratura sia possibile cambiare il mondo. La mia vita poi è un continuo costruire e provare a edificare pastorali. Vivo con il peso delle parole che scrivo perché quello che trasformo in pagine sono pezzi di vita che acchiappo nell’aria e trasformo in letteratura. Noi uomini e donne di questo lembo dimenticato che si chiama sud abbiamo un rapporto un rapporto di “odi et amo” con la nostra terra che è madre e nello stesso tempo matrigna”.
Tuoi progetti futuri in esclusiva per i lettori de “il Gazzettino vesuviano”?
“Una goliardata, il mio prossimo romanzo, scritto a più mani con Andrea De Simone, è la ricostruzione non storica, ma sentimentale di una sfida che Mario Alicata lanciò al poeta Pablo Neruda a Capri durante il suo esilio. Non una sfida a suon di pallottole, non il classico singolar tenzone, ma una sfida culinaria a base di cipolla. Il titolo sarà “Neruda, la cipolla e le lacrime di Mario Alicata”. Un testo romantico e soprattutto divertente”.
Domenico Ferraro