Natale 1999. Scarto un regalo, è un CD. Ho da pochi mesi la PlayStation, quindi sicuramente sarà un gioco. Lo apro: NBA Live 2000. Ho nove anni, non so nulla di basket, figuriamoci di basket americano. Ma comincio a giocarci e mi diverto, mi diverto tantissimo. In quel momento decido la squadra che sarebbe stata da lì in avanti la mia squadra del cuore: gli Orlando Magic. Il motivo? Ho uno zio che si chiama Orlando, direi che è perfetto. Inizio la stagione con i Magic, non conosco bene le regole dello sport, ma pian piano imparo e devo dire che me la cavo. Ma quando ci sono le partite contro i Los Angeles Lakers, c’è sempre un giocatore che non riesco mai a fermare… Mi fa sempre almeno 30 punti. In quel momento decido il giocatore che sarebbe stato il mio preferito, quello dei Lakers con la numero 8.
E’ inevitabile, quando ci lascia qualcuno di caro la mente va subito agli aneddoti divertenti e gioiosi. E’ un effetto condizionato per allontanare il dolore. E Kobe Bryant era qualcuno di caro. La mia passione per la pallacanestro la devo a lui, a quel ragazzo di Philadelphia che per vent’anni ha incantato chiunque lo vedesse con la palla a spicchi tra le mani.
Ovviamente saltano all’occhio le statistiche, i numeri. I cinque titoli vinti, il premio di MVP della Regular Season, i due premi di MVP delle Finals, le 18 apparizioni all’All-Star Game, le due medaglie d’oro alle Olimpiadi, gli 81 punti messi a segno in una singola partita (soltanto Wilt Chamberlain riuscì a fare di meglio, siglandone 100 nel 1962, ma erano altri tempi) il quarto posto come miglior realizzatore della storia dell’NBA (fino al giorno prima della scomparsa era terzo, superato dall’amico-rivale degli ultimi anni Lebron James, che lo ha sorpassato giocando proprio con la canotta dei Lakers). Ma Kobe era ed è oltre i numeri.
Kobe era la trance agonistica che vedevi nei suoi occhi quando c’era da mettere il pallone nel canestro e vincere la partita, ma Kobe era anche il sorriso e le risate con compagni, avversari e fan appena suonava la sirena di fine match.
Kobe era nell’emozione dei bambini, dei ragazzi che restavano incollati alla TV per vedere le magie di questo giocatore incredibile. Pure a costo di fare la notte in bianco. E parlo anche per esperienza personale.
Kobe era nel ragazzino del campetto che tentava di imitarlo e ovviamente non ci riusciva. Kobe era negli altri ragazzi che, quando vedevano il tentativo, gli urlavano “Eh vabbè, ma chi sei? Kobe Bryant?”
Kobe è nelle lacrime di tutti gli appassionati, dei colleghi che con Kobe ci hanno giocato insieme, ci hanno giocato contro o che grazie a Kobe hanno cominciato a lanciare quella sfera arancione verso il cesto.
Con Kobe se ne va una parte importante, non soltanto del basket, ma di tutta la storia dello sport. Un po’ come l’11 settembre, tutti in futuro ricorderanno dov’erano o cosa stessero facendo quando hanno saputo della morte di Kobe Bryant. Io ero nel bel mezzo di un Napoli-Juventus che stavo seguendo prima per passione e poi per lavoro. Ma dopo la notizia, la partita è scomparsa. La testa girava troppo, lo stomaco faceva troppo male.
Addio Kobe. Sei stato il basket. Grazie di tutto. Davvero.
Salvatore Emmanuele Palumbo