Il genere del giallo – in tutte le sue varianti e sfumature (noir, poliziesco, detective story…) – affonda le sue radice nella tragedia greca. Non c’è uno “scioglimento” più spiazzante dell’Edipo re. E un giallo ha la sua caratterizzazione diegetica più forte nella capacità di mascherare, dissimulare, nascondere la soluzione, l’individuazione del colpevole.
Così è anche per questo libro. Ma ciò che muove l’ispettore Romeo Giulietti, nella sua indagine, non è tanto la volontà di giustizia quanto quella di verità. Anzi, la sua missione è quella di far coincidere verità e giustizia, di far convivere nella medesima figura Antigone e Creonte. Ancora la tragedia, quindi!
E il collante è la sua anima, il suo modo di essere, la forma plasmata dalla sua esistenza. La sua storia di solitudine necessaria ma affollata di poeti, resa dolce e dolorosa da un amore perduto, da un inconfessato desiderio di lasciare al buio luminoso degli occhi chiusi le infinite possibilità di vita, dal suo dialogo muto col mare, ogni volta che il silenzio sembra farsi insopportabile, anche ad un cuore come il suo.
Perché se la violenza è la grammatica della vita, è l’amore, per Romeo Giulietti (vi ricorda qualcosa, il nome?), che ne costituisce il codice, il cifrario che quella grammatica governa, quella vita interpreta e comprende. L’amore, il sentimento, capaci di manifestarsi, anche in un solo bagliore, in ognuno, in tutti gli esseri. Come un fiore sbocciato nelle crepe dell’asfalto. E anche se fosse un’erbaccia, come si dice, sarebbe pur sempre Vita che il sole alimenta e lo sguardo umano, anche quando è distratto, non può che ammirare.
Del resto se il male fosse concentrato sarebbe semplice estirparlo. Il mondo diventerebbe un paradiso, ma il paradiso, anche nella sua forma terrestre non può che durare poco. Invece il male fa parte della vita, di tutte le vite, e tutte, tutte insieme non si possono strappar via. È un antidoto per consentire la perpetuazione della vita, un meccanismo di difesa e di protezione. Come i motori marini, come l’interruttore che scatta nei contatori.
Per questo l’ispettore Giulietti non crede nei numeri. O meglio sa che dicono la verità, forse la più inoppugnabile possibile. Ma sa che proprio per questo è la meno umana, la meno adatta alla condizione umana. La sciarada dei titoli dei capitoli che riportano cifre da ricercare al loro interno è una versione nobile dell’autoreferenzialità, un espediente formale più denso di un teorema, più prescrittivo di un articolo di legge.
Incontro con l’autore. Francesco Paolo Oreste. Storia di molti delitti e di poche pene
La storia, la trama…, ma che importanza ha. Basta leggerla per conoscerla. Ma senza leggerla come pensate che arrivi al cuore? Perché un libro è fatto di parole, di figure descritte, di organizzazione narrativa. Sul piano formale di uno stile. Su quello ”sentimentale” di atmosfere, emozioni, travisamenti. Di tutto ciò che le parole evocano senza dire. Ed è la parte più nobile dello stile.
Sempre lo stile. Tutto ciò che distingue un libro da una successione di segni grafici, che magari racconta una storia che, ad ascoltarla, penseremmo ad altro; a vederla, chiuderemmo gli occhi, a leggerla, il libro, dopo poche pagine.
Non con questa, di storie. Sì, lo stile è un miracolo che talvolta si avvera. Un miracolo… quando la parola si fa carne. E respiro. E ricordo. Persino speranza.
Come con questa storia.
Un giallo. O, meglio, un libro, funziona quando ti rendi conto che la “scoperta” finale – clamorosa, scontata, probabile – non modifica nulla del già letto, del percorso di sentire già fatto. Un po’ come la morte – terribile e necessaria – che non annulla tutta la vita che l’ha preceduta. L’unico spazio che ci rende diversi, l’unico tempo che nella memoria diventa oggetto di giudizio. Tanto, si sa, la fine è inevitabile e uguale per tutti. La vera, unica livellatrice. Chi più di noi, della grande Napoli, immensa madre del mondo, lo sa?
Anche in questo, il libro, il romanzo di Francesco Paolo Oreste, non racconta la vita. È la vita. Con le sue ingiustizie che pure accettiamo. Con le sue verità che non riusciamo mai a comprendere del tutto. Le piccole gioie che si fanno infinite, i grandi dolori che svaniscono nel pensiero rapito.
Che ti fanno cercare un verso in tutto l’universo. Cercare sì. E mai trovare.