Il settimo degli incontri dedicati alla nostra rubrica riguarderà due artisti “stranianti” (da straniamento: artificio letterario per fare uscire il lettore dagli automatismi della percezione), ma non solo.
Il riferimento è al “geniale” Piero Manzoni e al “beffardo” Max Oddone, che ci faranno sobbalzare, impallidire, irritare, ridere, perfino odiare e ripudiare tutto ciò che una certa arte, alcuni protagonisti e il sistema stesso, interagendo, hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi.
PIERO MANZONI
«Che altro possiamo fare | oltre mangiare e bere | forse pensare | al deserto di cani | o al vuoto oscuro | dell’indomani? | noi, cani randagi | noi, nati per stare nel buio»;
«Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere»;
«Alludere, esprimere, rappresentare, sono oggi problemi inesistenti: un quadro vale solo in quanto è, essere totale: non bisogna dir nulla: essere soltanto»;
Il suo rifiuto è scandalosamente azzerante ma al contempo stimola riflessioni e approfondimenti.
Rifiuto di esprimere apparentemente qualunque contenuto sentimentale, ideale o politico che preesista al concreto agire dell’opera.
“Non si tratta di formare, non si tratta di articolar messaggi”.
“Una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire)”.
Questo artista, sostanzialmente non etichettabile, esprime le profonde istanze di rinnovamento morale e sociale degli anni ’60, attraverso una contestazione ironica e dissacratoria, e secondo auterovoli critici d’arte ha la sua ascendenza nel Dadaismo.
Soprattutto però è una mente libera e indipendente per eccellenza (D.Biagi), e
antecedente diretto di minimali, concettuali e poversisti (G.Celant).
È stato preso sul serio assai più all’estero che da noi.
Ha portato l’idea di Duchamp sino all’estremo firmando come opera d’arte il mondo.
È stato il primo artista nato «globale» (e non divenuto tale con la fama), che sin dall’inizio, cioè, ha pensato mondialmente la sua arte.
In aderenza ai principi dell’Arte Concettuale, Piero Manzoni identifica nell’idea che precede l’opera la vera essenza dell’opera stessa, perchè il progetto, il gioco sottile dell’intelligenza, la formazione del pensiero sono i veri prodotti artistici.
Con coerenza e rigore, ma soprattutto con l’intelligenza tagliente di un uomo sempre e comunque contro corrente, Manzoni dà il suo personalissimo contributo a rifondare il concetto di arte e di realtà azzerando tutte le pratiche tradizional culturali, etiche, morali, per lasciar spazio al pensiero e alla sperimentazione più spinta.
Nato a Soncino (Cremona) nel 1933, ci lascia giovanissimo a causa di un infarto nel suo studio di Milano nel 1963.
Dopo gli studi classici presso i Gesuiti, si “iscrive” a Giurisprudenza e poi all’Accademia di Belle Arti di Brera e poi ancora alla facoltà di filosofia presso La Sapienza a Roma.
Ma già nel 1955, Piero Manzoni inizia a produrre dipinti con impronte di oggetti banali (chiodi, forbici, tenaglie ecc.), trattando la superficie della tela come campo di ricezione della realtà.
Nel 1956 pubblica il primo manifesto “Per la scoperta di una zona di immagini”.
Nel 1957 pubblica il manifesto “Per una pittura organica” ed è cofirmatario del Manifesto contro lo stile con il Gruppo Nucleare, con il quale espone alla mostra “Movimento Arte Nucleare” presso la galleria San Fedele di Milano.
Sempre nel ’57 realizza gli Achrome, nei quali il discorso intrapreso da Yve Klein con i suoi monocromi perde l’originario significato mistico e spirituale di “infinità energetica”, radicalizzandosi al punto che il quadro non è solo e semplicemente monocromo, ma addirittura è privo di colore, una superficie grezza in gesso e caolino, dove supporto, pigmento, opera sono un tutt’uno.
La gestualità dell’artista, a differenza del dripping di Pollock, è volontariamente quasi del tutto annullata e l’immagine si “autorealizza” sulla tela.
Infatti, la tela, imbevuta di caolino liquido e di colla, è lasciata asciugare, affidando al materiale la realizzazione dell’opera d’arte e all’immaginazione dello spettatore il significato, o più, da tirare fuori dalla sua lettura.
Il suo monocromo è la tabula rasa dei valori formali ereditati, “il disincanto col quale guardare al mondo dei contenuti politici, spirituali e sentimentali”.
Piero Manzoni era in sintonia, comunque, con gli amici-artisti danesi, tedeschi e olandesi del “Gruppo Zero” che lo “ricercavano continuamente”.
Dello stesso periodo, tra il’57 e il ’63, è “Merda d’artista”.
Egli porta alle conseguenze estreme, al paradosso più spettacolare, il suo discorso dirompente, inscatolando (90 esemplari) “le proprie feci”, che etichetta, firma ed espone.
Insomma, sembra dire che la firma dell’artista è in grado da sola di trasformare qualunque cosa, anche un rifiuto biologico, in arte.
Ha scritto sull’argomento A.Rugnone nel 2016: “Una follia?”
Ancor più folle è la cifra con la quale la Tate di Londra si è aggiudicata lo scorso anno una delle novanta scatolette (le altre sono nelle più prestigiose collezioni) per 52mila dollari: gli escrementi sono diventati più preziosi dell’oro.
Al di là dell’aspetto grottesco e canzonatorio immediatamente percepibile in un’operazione scopertamente provocatoria come quella rappresentata da merda d’artista, se si sottopone l’opera ad una lettura più attenta e ragionata, è possibile coglierne significati più profondi e dal peso specifico, sociale e intellettuale, molto più consistente.
La componente critica è molto forte nei confronti dei meccanismi e delle dinamiche che muovono la società dei consumi e il mercato dell’arte contemporanea, pronto ad accettare come oro colato anche della merda in scatoletta purché firmata ed autenticata dall’artista.
E’ lecito chiedersi, infine, se è davvero merda il contenuto delle scatolette metalliche.
Qualche anno fa un’artista francese ne ha manomessa una e tra lo stupore generale degli astanti stipati nel parigino Centre Pompidou non ha rinvenuto che un’altra scatoletta, dalle dimensioni ridotte, inserita in quella più grande in un geniale meccanismo di matriosche o scatole cinesi. Nessuno ha mai aperto la più piccola.
Agostino Bonalumi, artista-amico d’una vita, l’11 maggio del 2007 scrisse a tal proposito sul Corriere della Sera: “Posso tranquillamente asserire che si tratta di solo gesso. Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere le scatole”.
In seguito, Manzoni realizza Fiato d’Artista (palloncini gonfiati) e sposta definitivamente il significato dell’opera da essa alla sua realizzazione e all’artefice della stessa.
Definisce come essenza dell’opera d’arte l’artista stesso, la sua sola e semplice presenza, la sua firma (famosa la performance delle Uova sode, in cui il pubblico ammira e consuma sul posto l’opera d’arte, l’uovo firmato con l’impronta del pollice).
“La consumazione dell’arte dinamica del pubblico. Divorare l’arte”.
La sua forte critica all’ambiente del mercato dell’arte è chiara, crudele (in una visione del mondo più amara e drammatica di quella che ci propone negli anni seguenti la Pop Art); egli, in sintesi, denuncia la spregiudicata capacità del mercato di sfruttare le debolezze di un mondo disposto a comprare tutto, purchè firmato.
Inizia anche a creare oggetti concettuali come le “Linee” di varie lunghezze, alcune aperte, altre chiuse in scatole cilindriche nere con etichette arancioni e dicitura che riporta lunghezza, mese e anno di creazione, nonché certificati d’autenticità.
Le Linee sono le prime opere tridimensionali concepite dall’artista per superare ulteriormente la bidimensionalità della pittura.
La prima Linea è realizzata nella primavera del 1959 e consiste in un foglio di carta rettangolare su cui è tracciata una linea nera orizzontale.
Successivamente Manzoni crea Linee più lunghe tracciate su fogli di carta poi arrotolati e chiusi in cilindri con un’etichetta che indica la lunghezza e la data di creazione dell’opera.
Nel 1960 Manzoni radicalizza questi concetti creando vari esemplari di Linea di lunghezza infinita, semplici cilindri neri con un’etichetta che riporta: “Contiene una linea di lunghezza infinita. Piero Manzoni ’60”.
Opere per le quali, come scrive Manzoni stesso, “l’unica dimensione è il tempo”.
Progetta di firmare corpi viventi nudi come opere d’arte, rilasciando certificati di autenticità (saranno poi intitolate “Sculture viventi” e, tra le 71 che firmerà fino al 1961, compariranno anche Umberto Eco e Mario Schifano).
In Manzoni c’è senso di tristezza nel guardare una società in crisi, oramai priva di certezze e alla ricerca di nuovi valori; c’è, insomma, un senso di impotenza dolorosa e sfiduciata.
Sul finire del 1959 apre con Castellani, il centro espositivo Azimuth; che diventerà tra gli spazi di produzione artistica più significativi nell’ambito delle ricerche anti-informali.
La rivista del centro, “Azimuth”, uscita in soli due numeri, il n.1 nel 1959 e il n.2 nel gennaio 1960, ospitò:
- scritti di intellettuali e critici come Gillo Dorfles, Guido Ballo, Vincenzo Agnetti e Bruno Alfieri;
- opere di artisti quali Lucio Fontana, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Yves Klein, Jean Tinguely, Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Piero Dorazio;
- e poesie di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini ed altri.
Numerosi i progetti non realizzati, sintesi di natura e artificio:
- animali meccanici nutriti da energia solare, installazioni dinamiche e sonore alimentate dal vento.
- Per la musica vi sono due “afonie”;
- poi lavori e progetti che saranno accompagnati da numerosi testi teorici e manifesti, esponendo in circa ottanta mostre in spazi sparsi per l’Europa, con escursioni intercontinentali a Chicago e Taipei.
Nel 1960, Piero Manzoni espone insieme a Yve Klein, Heinz Mack e Enrico Castellani in una mostra intitolata La nuova concezione artistica ed esce il secondo numero della rivista Azimuth su cui pubblica il testo Libera dimensione, nel quale teorizza la concezione di “spazio totale”:
“Il verificarsi di nuove condizioni, il proporsi di nuovi problemi, comportano, con la necessità di nuove soluzioni, nuovi metodi, nuove misure;
non ci si stacca dalla terra correndo o saltando; occorrono le ali; le modificazioni non bastano; la trasformazione deve essere integrale.
Per questo io non riesco a capire i pittori che (…) si pongono a tutt’oggi davanti al quadro come se questo fosse una superficie da riempire di colori e di forme(…).
Tracciano un segno, indietreggiano, guardano il loro operato inclinando il capo e socchiudendo un occhio, poi balzano di nuovo in avanti, aggiungono un altro segno, un altro colore della tavolozza, e continuano in questa ginnastica (…).
Il quadro è finito; una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta a una specie di recipiente (…).
Perché invece non vuotano questo recipiente? Perché non liberare questa superficie? Perché non cercare di scoprire il significato illimitato di uno spazio totale, di una luce pura ed assoluta?”;
“FORMA, COLORE, DIMENSIONI, NON HANNO SENSO: VI È SOLO PER L’ARTISTA IL PROBLEMA DI CONQUISTARE LA PIÙ INTEGRALE LIBERTÀ.
LE BARRIERE SONO UNA SFIDA, LE FISICHE PER LO SCIENZIATO COME LE MENTALI PER L’ARTISTA”.
Progetta e realizza anche la Base Magica: un piedistallo firmato dall’artista che eleva al ruolo di “opera d’arte” ogni persona disposta a salirvi sopra.
Non contento realizza nel 1961 anche la “Base del mondo” (Land Art ?).
Un parallelepipedo in ferro (90 x 100 cm) installato nel parco della fabbrica Herning in Danimarca, “capovolto al suolo per eleggere il mondo ad opera d’arte, ossia tutti gli esseri viventi, ovvero tutta la natura e la cultura”.
Espone, ancora, con Castellani alla galleria La Tartaruga di Roma dove presenta altri “Achromes” e “sculture viventi” che firma in diretta.
Ogni scultura è corredata da un documento di autenticità e su ogni documento Manzoni appone, inoltre, un timbro (concetto di status e scadenza merceologica):
rosso se la persona è per intero un’opera d’arte e sarebbe rimasta sempre tale;
giallo se il nuovo status è limitato a certe parti del corpo;
verde se vincolato a certe attività come il dormire o il correre;
porpora se l’artisticità non è qualcosa di connaturato ma viene acquistata.
La gente malignava: “Può permettersi di fare tutto perché è ricco, perché è un conte”, riferendosi alle sue origini nobiliari (Johnny Ricci);
“La gente entrava alle sue mostre e ne usciva ridendo” (Sergio Dangelo);
“Tutti ce l’avevano col Manzoni” (Enrico Baj);
“Dicevano che non capiva niente, che era un ritardato, che era uno schifoso. Improvvisamente morì, giovanissimo, e divenne bravo, bravissimo per tutti e i suoi quadri andarono alle stelle” (D.Biagi).
La più «seria» ricerca artistica e il più sarcastico sberleffo in Manzoni andavano sempre di pari passo.
L’azzeramento perpetrato da Manzoni era tale anche nei confronti della politica.
“La politica? Non ha nessun significato per noi, noi viviamo in un mondo avveniristico!”.
Ma è invece fortemente e assolutamente politica, quest’arte, da un altro punto di vista: per come interpreta e esplicitamente critica l’allora nascente «sistema dell’arte» e non solo.
La provocazione delle provocazioni, quella cui tuttora resta legato il nome di Manzoni nell’immaginario collettivo è ovviamente la Merda d’artista.
Secondo D. Biagi fu questo il gesto che pagò caro, Manzoni; quello che gli alienò la maggior parte delle simpatie, di chi sino a quel momento aveva guardato a lui come a un inoffensivo buontempone.
È in ogni caso un gesto di non ritorno, l’episodio-chiave nella sua demistificazione del dispositivo feticista su cui si fonda il sistema dell’arte contemporanea.
Come ha scritto Nancy Spector, la decostruzione più radicale fra quelle da lui compiute è proprio quella del “rapporto dell’artista con i propri mezzi di produzione”.
“Accogliendo le nozioni di feticcio tanto di Freud che di Marx, Manzoni registra con spietatezza davvero annichilente la collisione prodotta tra valore estetico e valore di scambio”.
Non solo: “sopprimendo ironicamente la separazione tra artisti e opere d’arte (il proprio corpo esposto, il proprio corpo ridotto a reliquia), nonché quella tra spettatore e opera d’arte (vedi i visitatori della performance che ingeriscono le Uova “firmate” dall’artista con la propria impronta digitale; o gli utenti della Base magica che possono arbitrariamente decretare “arte” chiunque e qualunque cosa), Piero Manzoni demistifica la credenza prettamente modernista che il lavoro artistico sia lavoro non alienato”.
Vita, arte e politica, in Manzoni, vengono quindi a coincidere perfettamente, senza residui.
Ma anziché redimere la vita con l’arte, come avevano sognato le avanguardie storiche, è l’arte che purtroppo, secondo Piero Manzoni, si conforma del tutto, senza attenuanti, alle dinamiche sociologiche e di mercato che dobbiamo subire nella vita.
Alla morte di Piero Manzoni, Lucio Fontana – il quale sin dall’inizio ne aveva riconosciuto la genialità – dichiarò che con le Linee, in particolare, si era arrivati alla fine dell’arte.
Intendendo dire che con Manzoni ha fine l’idea di quadro, certo, e più in generale l’idea di oggetto di valore: “il manufatto evapora nel concetto”.
MAX ODDONE
“Piero Manzoni vendette la sua merda d’artista al prezzo dell’oro… io vendo la mia pipì, poiché liquida e non solida, al prezzo corrente di un barile dell’oro nero… oggi si attesta a poco più di 40 euro al barile… ovviamente saranno tutti pezzi unici con la loro piccola base in legno di 10×10 cm circa… come il mio predeCESSOre ne realizzerà al massimo 90 pezzi… con la differenza che qua non si tratta di multipli ma, ripeto, PEZZI UNICI realizzati a smalto su bicchierino di plastica di noto te freddo industriale… ovviamente tutti firmati… Sono ufficialmente aperte le prenotazioni… per le prenotazioni scrivete qui o meglio in privato… 2 mesi di tempo per avere la vostra pipì…”
Questo citazionismo o riferimentismo di memoria manzoniana ci porta direttamente al pensiero e all’opera dell’artista Massimiliano Oddone, in arte Max, che nasce il 26 Febbraio 1974 ad Alessandria.
Figlio d’arte, fin da giovanissimo segue le attività artistiche del padre pittore e del nonno scultore.
Nel 1993 consegue la maturità scientifica dopodiché si iscrive, e vi si laurea nel 2006, all’Università degli studi di Genova, presso la facoltà di Ingegneria.
Affianca agli studi universitari quelli pittorici e partecipa a numerosi concorsi e mostre collettive di pittura, nazionali ed internazionali, riscuotendo numerosi successi di critica e di pubblico.
In collaborazione, nel 2004, con il compositore Gabriele Pandiani, Max fonda la “Federazione Italiana Giovani Artisti” (F.I.G.A.): movimento (corrente) artistico che si prefigge di valorizzare e divulgare ogni forma d’arte ironico-concettuale.
Il manifesto di tale movimento artistico e il relativo Statuto vengono depositati presso la S.I.A.E..
Nel 2005 grande personale presso la Galleria Clio di Alessandria dal titolo: W LA F.I.G.A.! dove presenta ufficialmente la Federazione Italiana Giovani Artisti.
La sua tecnica pittorica, sempre più affinata, si esprime, in questi anni, con tele “graffiate” ed “incise”, in cui primeggia il colore applicato con decisi colpi di spatola.
Al di là della sua tecnica pittorica, che vive con relativo affanno, egli è sostanzialmente un artista irriverente e sarcastico.
Egli definisce provocatoriamente qualsiasi cosa arte tranne i suoi quadri.
Erede del puro concettuale, con peculiare autoironia, sottrae importanza alle qualità formali e stilistiche delle opere, in base a un processo di de-estetizzazione.
Nelle sue opere lingua, pensiero e visione interagiscono.
Lavora sul senso, sul significato, sulla citazione intraprendendo una ricerca del tutto personale.
Ironia, doppio senso, sovrapposizione, stravolgimento forzato del significato sono gli strumenti del suo operare concettuale.
Insomma, Max Oddone, entra nella scena dell’arte concettuale con un proposito chiaro:
“sovvertire il carattere di seriosità che fumosamente copre molti fenomeni artistici contemporanei”.
Il suo lavoro è sulla linea del dadaismo delle origini: dissacratorio, ironico, burlone ma con una raffinata intelligenza.
Su di una tela scrive: “tanti artisti si sono prodigati nella ricerca del brutto, ma solo io ci sono riuscito veramente! (e senza neppure fare fatica!)”.
Max dichiara apertamente che la sua arte fa schifo, è priva di bellezza, e se qualcuno la vuole è un cretino.
Per dirla con M. Beraldo, Max è consapevole di tutto questo e perciò si sente libero di affermarlo con sincerità, senza scomodare illustri esegeti del brutto; poiché dice: io ci sono arrivato senza inganni, senza menarvela, senza fare sociologia.
L’autoironia diventa quindi il tratto fondamentale del suo processo artistico, che si manifesta come tale proprio attraverso la denigrazione di se stesso, ma anche del sistema, di critici, artisti e fruitori.
Nelle sue opere si innestano frasi quali, “Quest’opera è talmente tanto concettuale che non la capisco nemmeno io che l’ho fatta!”; oppure inserisce una piccola pianola giocattolo sul fondo di una tela intitolando l’opera: “L’importanza del primo piano!”; o ancora dipingendo in prospettiva una cella di un penitenziario, sghemba alla maniera di Van Gogh, con sul fondo una finestra con le sbarre divelte ad indicare il “Punto…di fuga!”.
O ancora su “Burri e Fontana in una sfida a poker!” utilizzando da una parte delle carte da gioco bruciacchiate, e dall’altra delle carte su cui ha inciso il caratteristico taglio dell’artista spazialista.
In sintesi, dice ancora M. Beraldo, l’artista è spinto da una irrefrenabile volontà di mettere in corto circuito ogni concezione seria dell’arte, e per ottenere ciò deve delegittimare prima di tutti se stesso, offrendo allo spettatore un momento d’ironia, a volte sottile altre volte grossolana e volgare, ma sempre rispettosa e intelligente e a tratti geniale.
Più delucidante di ogni recensione o critica sul suo lavoro e sul suo pensiero è quest’auto-intervista: “Auto-intervista (cioè che mi sono fatto in macchina!)
Alter Ego: Comincerei subito con la domanda più scontata (che tanto mi costa poco!): perché ha deciso di fare l’ARTISTA ?
Max: E’ il primo che mi definisce artista, sa? … perché non ho voglia di far niente!
Alter Ego: Quindi lei è un pigro? (azzarderei fancazzista…?)
Max: No, io sono un PIGRISTA; o meglio sono il fondatore del pigrismo (“nuovo movimento artistico”)
Alter Ego: …e cosa si propone di fare un pigrista?
Max: il “meno possibile”!
Alter Ego: Capisco… ma non è che la ricerca spasmodica del fare il “meno possibile” possa diventare alla lunga faticosa e laboriosa andando contro il principio stesso del pigrismo facendolo sfociare nel paradosso?
Max: La facevo più stupido sa? Anche se non ho capito niente della sua domanda credo sia come dice lei (i pazzi è sempre meglio assecondarli!) ma la prego di evitare con me parole che non conosco quali: fatica, lavoro, operosità ecc. ecc.
Alter Ego: Lei si definisce ironico-comico-concettuale giusto?
Max: Aggiungerei autoironico…ma non modesto!
Alter Ego: Infatti, lei definisce le sue “creazioni” CROSTE (cioè riprendendo la definizione del dizionario: “dipinti di nessun valore artistico”) e dice che i suoi quadri sono brutti, sgradevoli, non finiti, antiestetici…
Max: perché non è forse vero?
Alter Ego: Sì! Verissimo! Ma allora perché la gente dovrebbe apprezzare i suoi prodotti?
Max: perché la gente è masochista!
Alter Ego: Ma lei pensa davvero che i suoi quadri siano brutti?
Max: Non lo so…io non li guardo mai (non sono mica matto!)
Alter Ego: e quali sono, secondo lei, i suoi quadri più belli?
Max: secondo lei esistono miei quadri belli?
Alter Ego: ..allora lei ricerca, come Dubuffet, il brutto…?
Max: no, a me viene spontaneo…!
Alter Ego: …capisco…e riguardo alla F.I.G.A.?
Max: sempre meno, purtroppo!
Alter Ego: intendevo la Federazione Italiana Giovani Artisti (da lei “fondata”)…
Max: una bella provocazione che non ha capito nessuno… manco io!
Alter Ego: Guardando attentamente le sue “croste” emerge in ognuna almeno una doppia (se non tripla o quadrupla) chiave di lettura…
Max: ah sì? Pensi che io non me ne sono mai accorto…!
Alter Ego: Le sue opere contengono spesso molti riferimenti alla storia dell’arte del resto sbaglio o lei ha fondato anche il Riferimentismo?
Max: Può essere…ho detto e fatto talmente tante stronzate che chi se lo ricorda più…!
Alter Ego: Ma lei pensa veramente di avere successo con cose che fanno “solo” ridere?
Max: Non sa la gente quanto ha riso di Manzoni e Fontana…adesso ride un po’ meno…!
Alter Ego: quindi lei si paragona a Manzoni?
Max: No, non sono uno scrittore…
Alter Ego: intendo quello della merda…
Max: mmm… merda? Quale merda? Ma la finisce di dire parolacce?
Alter Ego: molti dicono che lei è un erede del FLUXUS…
Max: Cos’è? Un assorbente interno?
Alter Ego: Quando crea a cosa pensa?
Max: Non penso! Non sono adeguatamente attrezzato per farlo…!
Alter Ego: cosa pensa di chi, ACCIDENTALMENTE, (e magari contro il proprio volere), compra le sue croste?
Max: perché c’è qualcuno che spende anche dei soldi per le mie croste?
Alter Ego: sì, purtroppo…
Max: Gente a cui piace buttare via i soldi…
Alter Ego: Duchamp disse:”Stupido come un pittore”…
Max: Le posso assicurare che non si riferiva a me…!
Alter Ego: Le capita mai di parlare da solo?
Max: Mi prende per il culo?????!!!”
Cosa dire o aggiungere a questa ironica auto-intervista di Max Oddone su se stesso, la sua arte, quella di certi suoi colleghi, sui critici, sul sistema dell’arte e sui fruitori delle opere d’arte nell’oggi del dopo il post-postmoderno?
«Non c’è nulla da dire: c’è solo da essere, c’è solo da vivere» come chiosava Piero Manzoni.
Raffaele Pisacane