“Il clan D’Alessandro acquistava la marijuana sia dai Di Martino di Gragnano, che dal clan Cuomo di Casola. Una volta comprammo 10 chili pagandoli 10mila euro”. Sono le parole di Pasquale Rapicano (alias lino o’capone) e collaboratore di giustizia, pronunciate davanti ai magistrati, nel corso di un’udienza legato al processo Domino, che vede alla sbarra il gotha del clan D’Alessandro. Tra gli imputati, figura anche il nome di Giovanni D’Alessandro (alias Giovannone) per il quale è stata formulata una richiesta di pena di 20 anni da parte della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Oltre a Rapicano, ha testimoniato in videoconferenza anche Renato Cavaliere (anch’egli pentito ed ex membro del gruppo di fuoco dei D’Alessandro, condannato tra l’altro anche per l’omicidio del consigliere comunale del Pd, Gino Tommasino).



I racconti dei pentiti potrebbero rappresentare un punto di svolta per le indagini sulla camorra stabiese. Parole che possono squarciare il velo di mistero che ancora avvolge tanti casi irrisolti. Dagli omicidi senza colpevoli fino alle tratte dello spaccio: tutt’ora uno dei principali business attorno ai quali ruotano le fortune dei D’Alessandro e delle cosche satellite che ruotano attorno all’universo criminale di Scanzano.



Pasquale Rapicano, l’ultimo pentito della camorra di Castellammare di Stabia, è considerato un personaggio importante nella geografia del crimine organizzato della costiera vesuviana. E i suoi verbali, firmati dopo la decisione di pentirsi a fine 2019, potrebbero rappresentare la chiave di volta per l’Antimafia. Secondo gli inquirenti è stato un trafficante di droga con licenza di uccidere. Sul suo capo, tutt’ora, pende una condanna all’ergastolo, in Appello, per l’omicidio di Pietro Scelzo. E le sue parole sono già finite al centro di diverse indagini che fanno tremare la camorra di cui ha fatto parte.



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